giovedì 22 aprile 2010

Cosette Miserabili - Romanzo


Capitolo II° Parte I°

Ninna nanna di Brhams

Cantava la mamma col suo fantolino in braccio: era felice! ero la gioia del suo cuore, la sua Luce, “luce dei miei occhi, luce del mio cuore, luce della mia vita, luce dei miei giorni, luce della mia notte, …” ripeteva stringendomi al cuore.

Adattò come ninna nanna un canto natalizio di Brhams, e cullandomi fra le braccia cantava sottovoce:

Ninna nanna mio ben riposa seren

dormi dormi così fino al sorger del dì

Quando l’alba verrà sorgerai dal lettin

se il Signor lo vorrà sorgerai o bambin.

Ninna nanna mio bel riposa seren

un angiol del ciel ti vegli fedel.

Una santa vision faccia il sol irradiar

Una dolce canzon possa i sogni cullar.

Buona notte piccin riposa carin

Riposa tranquil bambina gentil …

Alcune pie vicine, beghine col fazzoletto in testa e la corona in mano, si scandalizzarono sentendo le nenie della mamma:

“Rosellina, non devi cantare così, è eresia, fai peccato. Questa è la canzone che la Madonna cantava a Gesù Bambino, nessuno può cantarla: è riservata a Gesù e Maria.”

Piuttosto impara questa: è la ninna nanna che da sempre hanno cantato le nostre donne:

“ninna nanna ninna oh

fai la ninna, fai la oh,

picciridda do me cor

ninna nanna ninna oh.

E se tu nun voji durmiri

cauci e pugni

‘sa quantu ‘n’aviri.

E ‘naviri cincucentu

figghia d’oru

e figghia d’argentu”

Mamma rispose: “la Madonna come me ha portato in grembo Suo Figlio, come me lo ha allattato, non è mai stata gelosa di lui e del Suo canto, quindi la Sua ninna nanna è anche la mia” e nel suo cuore aggiunse “via brutte streghe ipocrite e farisee che promettete ai vostri bimbi calci e pugni se non s’addormentano subito!” ; e continuò a ninnarmi canticchiando la nenia di Natale.

Il secondo Battesimo, quello canonico, (il primo l’avevo già avuto al momento della nascita visto che stavo per morire) fu rimandato perché i miei futuri padrini, dei nababbi amici del nonno materno, erano residenti in Libia e si aspettava che venissero al paesello per il grande evento.

Parte II° - Fra una danza e una tarantella

Il nonno, da tutti riverito e onorato era conosciuto come “Don Vicenzu” abbreviazione siciliana di “Don Vincenzo” datagli dai mezzadri in segno di rispetto, era rigoroso e freddo in famiglia e con i suoi subalterni. In compenso la sua cantina traboccava d’ogni ben di Dio: salumi, formaggi, olio, legumi, fichi secchi e uva passa, conserve varie ecc., ecc.. Nonno era ricchissimo e si sentiva un semi-Dio: tutti dovevano fare il suo volere!

Nonno faceva parte dei notabili che ogni paese che si rispetti ha: il Sindaco (per l’appunto il nonno), il Canonico, il Medico, il Farmacista; questi erano l’intellighentia.!

Don Vicenzu era l’Autorità incontrastata: ricco sfondato, Epulone del suo tempo, eletto sindaco in ogni legislatura, amava la poltrona e il potere, la pensava esattamente come il famoso eterno politico italiano che dice: “il potere logora chi non ce l’ha”

Il Canonico, un metro e cinquanta di Fede e di dubbi, sembrava un birillo nero rotondetto che camminava rotolando. Era buono: ligio al suo dovere , pronto a dir messa la mattina e alle benedizioni vespertine; non si faceva pregare a correre presso i moribondi e andava in sollucheri quando celebrava matrimoni e battesimi.

Non credeva ai mistici e alle visioni, se qualcuno gli confidava d’aver visto la Madonna si innervosiva e rispondeva così : “hai fatto indigestione?!” o se l’anima eletta era troppo macilenta gli diceva: “figlio mio, fai troppi digiuni, vedi di riempirti la pancia e questi malesseri (sottinteso,visioni) passeranno.

‘Mai che un predicatore
avesse il grugno
di dire."Io non ho
per voi certezze,
ma di fragili speranze
solo un pugno". Gilberto Fanfani’

Abitava con sua sorella che adorava e con la quale condivideva il letto e le grazie. La poverina viveva come una monaca di clausura, non le fu mai permesso di fidanzarsi o di guardare un uomo: era sua e lui le bastava! Non usciva mai ad eccezione della domenica quando il buon Canonico le permetteva di partecipare alla Messa dell’alba, da lui celebrata, e seguita solo da quattro frettolosi gatti che non vedevano l’ora che finisse per correre nei campi. Durante la consacrazione, nell’ostensione della Sacra Ostia, il suo sguardo innamorato con un lungo raggio raggiungeva sua sorella, Donna Filomena, adorandola!

La messa mattutina era l’ideale per soddisfare il precetto, e la carne della sua carne era preservata da sguardi impuri e desideri licenziosi.

Il medico Costante, come già abbiamo visto era sempre irreperibile: amava la caccia e il buon vino rosso, e la sera al ‘Circolo Culturale’ non mancava per infinite giocate a carte e alzate di bicchiere.

Il farmacista Raffaele aveva l’aria dell’asceta, alto e magro, silenzioso, conosceva una sola parola ’benedicite’ che dispensava generosamente alla plebe ossequiante. Stava quasi sempre sul retro della farmacia con le sue ampolle e alambicchi a preparare miracolosi rimedi.

Questi i quattro Cavalieri del glorioso Kars da tutti riveriti ed ossequiati.

In secondo piano nel rispetto popolare venivano: il Maresciallo, il Bancario, l’Esattore, l’Assicuratore.

Per ultimi venivano gli Insegnanti.

Mia madre fu la delusione della vita di suo padre: aveva investito su di lei facendola studiare nel Collegio più prestigioso di Catania, riservato a ricche signorine figlie di buona famiglia, dove oltre la letteratura e le scienze matematiche, filosofiche e fisiche si studiava anche musica, canto, danza e buone maniere; il galateo era libro di testo!

Rientrava a casa a Natale, Pasqua e nel periodo estivo per trascorrere le vacanze in famiglia.

Nonno Vincenzo aveva promesso in sposa la sua Rosellina piccolina d’altezza, ma bella ed intelligentissima, ad un ricco farmacista di un paese vicino, più grande di lei di circa vent’anni, ma con un carattere dolce e buono e proprietario di terre, ville e appartamenti sparsi un po’ dappertutto nell’isola e su in continente.

Aveva circa tredici anni quando mamma conobbe il fidanzato scelto per lei dal padre. Cominciò a scrivergli biglietti e letterine che, come sperava il nonno dovevano essere d’amore, erano invece educate e amichevoli.

Finì con l’affezionarsi al promesso sposo, ma senza passione; passava le estati e le feste ospite dei genitori di lui nella villa di villeggiatura immersa nel verde.

Fino a diciotto anni, quando completò i suoi studi e la sua educazione nell’esclusivo collegio per ricche signorine, la sua vita trascorse serena: era una fanciulla fine, senza grilli per la testa, un gioiellino di cui essere fieri.

E il nonno lo era: l’amava totalmente, le aveva fatto da padre e da madre, visto che sua madre, cioè mia nonna, seconda moglie del nonno, era morta dandola alla luce.

Nonno non si risposò più ed ebbe per lei tutte le cure e attenzioni paterne e materne; pensò anche al corredo fatto arrivare appositamente dalla Francia e da Firenze.

Per le trine e i merletti scelse i più costosi e pregiati: il merletto d’Alençon (Francia), il Cantù e il tombolo da Venezia.

Sapienti ricamatrici creavano poi capolavori applicando le trine alla seta, al lino finissimo, al bisso.

Senza considerare le meravigliose tovaglie e i coprilètto damascati rifiniti in frivolitè o macramè.

Don Vincenzo realmente pensò a tutto, il corredo di Rosellina era l’invidia e l’ammirazione di tutte le fanciulle da marito e delle loro madri.

Quando compì diciotto anni, nonno con l’aiuto delle signore mogli dei contabili del paese, organizzò per la figlia una magnifica festa per il suo ingresso ufficiale nella società.

Naturalmente era invitato il giovane (si fa per dire, visto che aveva trentotto anni) farmacista fidanzato di Rosellina.

E …, il diavolo ci mise la coda. Quella sera fra una danza e una tarantella mamma conobbe mio padre, e fu amore a prima vista!

Prima si incontrarono i loro sguardi, poi i loro cuori palpitarono all’unisono, in fine furtivamente si unirono le labbra.

Il farmacista Melilli li guardava da lontano tormentandosi l’anima.

I due ragazzi si appartarono per presentarsi e conoscersi meglio. Mio padre era bello come un dio greco: alto (un metro e ottantadue), biondo dorato, occhi verde-azzurri, cangianti secondo il tempo e l’umore; quando si adirava le sue iridi diventavano plumbei e mandavano bagliori come un cielo in tempesta.

Mamma era una miniatura: piccola di statura (un metro e cinquantacinque circa), ma ben formata e con un ovale da madonna, sembrava una statuina di porcellana, i suoi occhi erano ambrati e i capelli castano chiari lunghi e inanellati.

Una bella coppia, niente da dire.

Flavio raccontò alla piccola Rosellina le sue avventure; già da qualche anno si trovava a Kars, giovanissimo quasi alla fine della guerra era stato chiamato alle armi, ma subito fatto prigioniero dai tedeschi e deportato in un campo di concentramento.

Vi restò per sei mesi circa patendo fame e freddo, nel frattempo con altri due italiani organizzarono la fuga che poi fortunosamente riuscì: erano terrorizzati e ad ogni minimo rumore si nascondevano nelle cunette o fra i cespugli.

Uno di loro morì per strada di fame, freddo e forse polmonite, perché scottava e aveva problemi di respirazione. Lo seppellirono alla buona e continuarono il loro cammino.

Arrivarono in Italia dopo un paio di mesi di peripezie, il suo compagno cercò subito le autorità militari, ma trovò il caos. Papà preferì tornare in Sicilia, ma nel timore d’essere accusato di diserzione, non andò da sua madre, ma venne a Kars cercando rifugio e protezione.

Era magrissimo, sporco e malconcio; nonno lo accolse come un figlio,lo fece curare e poi gli offri di lavorare per lui assieme ad altri mezzadri nelle sue tenute.

Egli accettò riconoscente e, visto che aveva studiato divenne presto ‘Amministratore’ e uomo di fiducia del nonno.

Ormai la guerra era finita da oltre tre anni in tutta Italia, ma Flavio trovandosi bene, era rimasto.

“Avevo sentito parlare di te, ma non ti avevo mai vista. Dicono che sei quasi sempre a Catania per i tuoi studi”

‘Sì, è vero, ma ora li ho completati e sono tornata per sempre’

“dicono che sei fidanzata”

‘si, è quell’uomo li in fondo; l’ha scelto papà: è farmacista.’

“lo ami?”

‘Non so … gli voglio bene. E’ molto carino con me e i suoi genitori mi adorano.’

Mamma si innamorò perdutamente di mio padre, perse letteralmente la testa per lui. Mio padre bello ed aitante era corteggiato e conteso da tutte le fanciulle, ma lui si sentì scelto e prediletto da Rosellina visto che era la figlia del suo capo, nonché sindaco del paese.

Cominciarono a frequentarsi di nascosto di tutti; Rosellina prendeva la sua bicicletta e quando sapeva che non c’era suo padre andava da Flavio.

Così per un paio d’anni. Finché suo padre decise che era ora che sua figlia andasse sposa, era sui vent’anni e gli sembrò un’età ragionevole, anche perché non voleva far invecchiare troppo il farmacista Saro Melilli.

Iniziarono i preparativi, Rosellina si disperò. Flavio senza nessun preavviso fece armi e bagagli e partì. Doppio dolore per la fanciulla. Suo padre come tutti i genitori, malgrado qualcuno chiacchierasse in paese, non s’era accorto dell’amore impossibile di sua figlia per Flavio.

Quando questi scomparve si adirò molto sentendosi tradito nella fiducia.

Rosellina sembrò impazzita: tutti i giorni correva alla fermata dell’auto sperando di vederlo comparire, guardava speranzosa tutte le macchine dei forestieri di passaggio da Kars, col desio di veder scendere Flavio, chiedeva al postino se ci fossero lettere per lei, supplicandolo eventualmente di dargliele lontano da occhi indiscreti, specialmente da quelli di suo padre … ma fu tutto inutile: Flavio sembrava scomparso nel nulla.

Mamma perse il sonno e la fame, finché dopo tre mesi d’agonia, visto che il tempo del suo matrimonio s’avvicinava e non avendo il coraggio d’affrontare suo padre e Saro il farmacista, un pomeriggio fece un colpo di testa: prese la corriera e andò a Siracusa a cercare il suo amato.

Lo trovò, la famiglia di Flavio era molto conosciuta e le indicarono subito la sua casa patrizia.

Parte III° Festa di mezza estate

Considerando il periodo in cui avvennero i fatti (inizio anni ’50) in cui l’Italia si stava riprendendo lentamente dalla guerra, ma era ancora con una mentalità bigotta e puritana pronta al giudizio e alla condanna; Rosellina dimostrò fegato e coraggio da vendere, sfidando le ire del padre e le malelingue del paese.

Flavio quando se la vide dinanzi; prima impallidì, poi arrossì di rabbia.

“E tu che ci fai qui?!”

La fanciulla si sentì ferita a morte, lo guardava interrogativamente … finché lui nel vedersela davanti così giovane, bella, innamorata e disperata si sgelò e se la strinse al cuore.

Dopo aver amoreggiato con lei senza però conoscerla biblicamente, Flavio portò Rosellina nel più bell’albergo della città, e l’indomani mattina la riaccompagnò a Kars.

Nonno era in condizioni pietose, era stato ad un pelo di un colpo apoplettico ed aveva già denunziato la scomparsa della figlia.

Nel vedersela davanti quasi si strozzò, mia madre buttandogli le braccia al collo gli disse:

“Papà lo amo, lui è mio marito.”

“Non l’ho sfiorata nemmeno con un dito, ma la amo anch’io.” Replicò lui.

Nonno Vincenzo era distrutto; informò il farmacista Saro Melilli che il fidanzamento con sua figlia era andato a monte e pretese subito dai ragazzi il matrimonio riparatore.

Così Rosellina e Flavio, dopo meno di un mese dalla ‘fuitina’ di lei, si sposarono alle 6 di mattina, senza fiori, senza canti, senza invitati, senza luci.

Questa era la punizione che la mentalità meschina dell’epoca riservava ai figli ribelli.

Ma mia madre era felice: quando entrarono in chiesa, così giovani e innamorati, le ombre si dileguarono e la loro bellezza illuminò le tetre navate della Madrice.

Nonno era troppo adirato e non organizzò nessuna banchetto di nozze per la figlia, ma la amava e le diede l’appartamento arredato e il suo prezioso corredo, quindi per smaltire la sua rabbia, armatosi d’amo ed esche andò a pescare trote e tenche al fiume Anapo che attraversava le sue tenute.

Ma non aveva fatto i conti con i notabili del paese: le loro mogli e i mezzadri con le loro donne che adoravano la piccola Rosellina e a sua insaputa organizzarono una magnifica festa banchetto in campagna nell’aia vicino la fattoria e le case coloniche.

Con una scusa nel pomeriggio prelevarono i due sposi e li portarono nella tenuta del nonno, e… oh meraviglia! Enormi tavolate con ogni ben di Dio, vini pregiati: Nero d’Avola, Duca di Salaparuta, Cerasuolo di Vittoria, Malvasia, Passito di Pantelleria, Lacrima Cristi, Marsala …, poi ancora Nocini, Karkadè, Elisir, Ratafià, Rosoli … dolci e dolcetti d’ogni tipo e piatti salati a volontà.

Le fanciulle e i giovanotti erano vestiti con i costumi tipici siciliani e all’arrivo degli sposi si aprirono le danze.

Si ballava di tutto, ma in prevalenza tarantella e mazurca .

Il vento portò al nonno profumi, riso e canti. Come un segugio seguì a fiuto gli odori e i suoni e si ritrovò nella sua aia vestita a festa, nel bel mezzo di una tarantella.

Si inibì: non sapeva più se ridere, piangere o dare in escandescenze … mentre ancora rifletteva un ragazzetto gli si avvicinò offrendogli un tamburello.

Sorrise e si unì alle danze.

Era una magica sera di Luglio e Rosellina ebbe il suo “Sogno di una notte de mezza estate”


Nota: I ricordi del matrimonio di mia madre hanno il supporto dei racconti che mi fecero Tessy e uno zio paterno.

La ninna nanna è un ricordo mio personale, mamma me la cantò fino la sera prima di morire.

lunedì 19 aprile 2010

Cosette Miserabili - Romanzo

Dedico queste mie pagine a tutti i piccoli orfani d’ogni era e d’ogni luogo, postati in freddi orfanotrofi: privati della dignità di ‘persona’, della fanciullezza, dei giochi, del sorriso, dell’amore!

A loro, crocifissini di ieri, d’oggi e di domani và il mio pensiero e tutto il mio bene

Cosette Miserabili

E dire ch’erano gioia
luna e stelle...
figlie di Re
bouquet d'aurora...!

"Decima d'aneto
per sacro presente:
ladra d'avi e di progenie
ludica funesta
ruba
vite baciate.
Parole laviche
da bocche di ghiacciai,
magma sferzante
arroganza farisaica
veste
figlie del nulla,
concrete false
astratte sagome di vento,
neri fiocchi
anni secondari...
Cosette miserabili
genie di nubi
ed ombre di terra
piovono
lacrime azzurre,
grande stupore fuso!
Ancestrali rimedi
su perduti nomi:
cifre non amate
sigilli di numero
in bracci di stoffa...
Cinquanta piedi scalzi
irrequieti
bocci alati
difficili al riposo,
danzano
musica sognata
vestine corte
risate al vento
su arsi camposanti.
Mute
genetiche nenie ataviche
di bambole obliate...!"

E dire ch'erano gioia,
luna e stelle...
figlie di Re
bouquet d'aurora...!

Aliquem tutorem instituere fliorum orbitati

Cusiddi Miserabili

E diri ch'erunu gioia
luna e stiddi...
figghi di Re
sciuri d'aurora...!

Decima ufferta di benifatturi
ppi sacru prisenti:
latra di matri e figghi
joculana fatali
ruba
viti vasati.
Paroli di focu
di vucca di ghiacciai,
lava smaccusa
arruganza farisaica
vesti
figghi di lu nenti
cuncreti fàusi
fantasiusi sàgumi di ventu,
niri giummi
anni sicundari...
Cusiddi miserabili
genii di nuvuli
e ùmmiri di terra
chiovunu
lacrimi cilesti,
granni stupuri fusu!
Antichi rimedi
sùpira a nomi pirduti:
cifri nun amati
sigilli di nùmmiru
nni vrazza di pezza...
Cinquanta pedi scàusi
scueti
bocci alati
difficili a lu riposu
danzanu
sugnata musica
nichi vesti
risati a lu ventu
sùpira a nfucati campusanti.
Muti
genètichi antichi cantilene
di pupiddi dimenticati...!

E diri ch'erunu gioia,
luna e stiddi...
figghi di Re
sciuri d'aurora...!

Aliquem tutorem instituere fliorum orbitati. (Traduzione in lingua siciliana di Patti Alessio)


Cap. I°

Il mio nome è Pietra Luce

Sono nata a Kars, paesello sui monti Iblei proseguo degli Irei , dove abitavano i miei genitori, e che dista circa 48 km. circa dal capoluogo Siracusa: antica città greca-romana, gioiello d’arte e d’antichi siti archeologici e architettonici; ben servita di medici, ospedali, cattedrali, seminari, banche, brefotrofi, patrie galere, palazzi di giustizia, forze armate ecc.,: tutta l’Italia in una cittadella.

Il mio paesùcolo faceva parte di una triade di piccoli borghi distanti l’uno dall’altro una decina di km. circa. Uno aveva origine greche e infatti vanta il suo bel teatro un po’ più piccolo di quello della superba Siracusa, ma altrettanto bello. Il secondo era arabo e il terzo normanno.

Il paesino di antichi vestigi arabe, Kars, (dall’arabo ‘castello’), per l’appunto il mio, era sito a 700 mt. sul livello del mare, circondato da boschi fitti e lussureggianti.

Non fu mai bombardato in nessuna guerra: era invisibile! niente grattacieli o monumenti con pinnacoli, solo piccole casette bianche e rosa basse e con l’orticello sul retro. Non c’era in nessuna cartina geografica ed erano a conoscenza della sua esistenza solo i discendenti dei nativi sparsi nel mondo, la Curia e la Provincia. Sono certa che nemmeno oggi il sofisticato Google Earth riuscirà mai a scoprirlo! Infatti nei secoli in ogni guerra fu rifugio inviolato dei disertori.

La sua aria era fine e con un microclima mediterraneo delizioso: l’estate era calda ma non opprimente, d’inverno cadeva la neve e giovani e vecchi si divertivano giocando mentre il caldarrostaio intiepidiva l’aria e offriva a tutti le prime scottanti castagne. Ci si conosceva tutti ed anche i passeri e le rondini riconoscevano gli uomini che non li cacciavano e davano loro le briciole e, non tradivano mai! ogni passeraceo tornava sempre alla stessa casa per il rancio e il nido.

La nonna paterna si chiamava Pierangela era di umili origini, ma bella e intelligente aveva sposato l’uomo più ricco del paese, un vecchio nobile decaduto, Ottavio Filiadei, più anziano di lei di quarant’anni, con la fissa dei nomi romani: lei aveva 18 anni e lui 58.

Nonno Ottavio dopo il matrimonio con la sua bella Pierangela, si ringalluzzì, ebbe un ritorno di gioventù e fece figli e figlie, finché una notte dopo le sue gesta amorose ci restò secco e in tre minuti si ritrovò con i suoi avi.

Nonna Pierangela si ritrovò una ricca vedova di figli e di debiti, in quanto il suo marito aveva sperperato tutti i beni di famiglia in viaggi, feste, battute di caccia, donne…; le rimase la casa patrizia e la sua corona di progenie. Dopo nove mesi partorì il sesto bambino ultimo regalo del seme di Ottavio al suo ventre fertile come buona terra: mio padre non conobbe mai il suo.

Quando io nacqui era tradizione battezzare i figli col nome dei nonni paterni, per continuare la dinastia. A mia madre non piaceva proprio quel nome, ovverossia ‘Pierangela’ e ripeteva a mio padre, il più bell’uomo dell’isola, che se il figlio che portava in grembo fosse stata femmina, mai e poi mai l’ avrebbe chiamata Piera perché era convinta che con quel nome sua figlia sarebbe stata una ‘pierina’ zimbello dei compagni e della vita.

Pierangela aveva rispettato gli usi della famiglia di Ottavio, chiamando il figlio con un altisonante nome romano: Flavio Giulio, ma tutti lo chiamavano solo ‘Flavio’; a mia madre per il figlio maschio i nomi andavano benissimo, anzi ad onor del vero, le piacevano molto, ma per la femmina no.

Mio padre ligio alla tradizione e al dovere non si smuoveva di una virgola e mamma Rosellina bella e testarda restava inchiodata alla sua decisione; così fu interpellata la saggezza nelle vesti della vecchia nonna e mise d’accordo la nuova generazione: ecco, il nome Piera si potrà sostituire con Pietra, e invece di Angela andrà bene Luce, visto che gli angeli sono esseri di luce, così se sarà femmina si chiamerà come la nonna Pierangela, ma con il nome modificato in Pietra Luce.

Mi raccontò in seguito mio padre che in quel minuto gli occhi di mamma si illuminarono come fari nella notte: era felice e il nuovo nome le piacque molto. Inutile dire che erano tutti convinti, o almeno lo speravano fortemente che mamma avrebbe partorito un maschio: non era mai successo nella famiglia Filiadei che un primogenito fosse femmina…! Nemmeno questa ragazzina avrebbe deluso: la sua pancia era alta e lei portava in giro la sua gravidanza felice, dritta, fiera.

Non fu così. Nacqui io e fui la delusione di mio padre e di tutto il parentado, compreso il nonno materno; mamma fu assistita dal parto dalla vecchia ostetrica di famiglia Donna Liberata, senza una gamba e con le cataratte ad ambedue gli occhi. Era una fredda sera di Dicembre e l’ostetrica con la sua carrozzina d’invalida stava assistendo in chiesa al rito vespertino del sabato sera. Chissà poiché io decisi di nascere prima, forse per l’ansia di vedere la luce che dalla culla ovattata del grembo di mia madre, avevo sentito tanto decantare.

Rosellina Melalogo in Filiadei - era al suo settimo mese di gravidanza; l’anziana levatrice stava immersa nel divino e i suoi pensieri vagabondi visitavano il paiolo di ceci che borbottava sulla brace: ‘ancora due ore posso stare tranquilla’

Non si aspettava l’urgente chiamata della vicina in ambasce: ‘vieni subito, sta per nascere il figlio di Rosellina”, si mise in confusione e strizzò l’occhio al chierichetto perché le spingesse la carrozzina. Il chierichetto si precipitò vestito ancora coi suoi piccoli abiti para-talari e con il campanello in mano; i suoi piedi erano veloci come quelli di un biblico cervo e il campanello squillava argentino ad ogni passo. Il vecchio Curato vedendo il suo monello ministrante che correva a gambe levate suonando la campanella spingendo l’invalida pensò ad un futuro morituro e corse arrancando e sbuffando dietro ai due.

La giovane madre vedendoli arrivare capì subito che l’anziano canonico l’aveva scambiata per una bella moribonda e con il suo ultimo urlo di doglia scuotendo il capo, voleva chiarire l’equivoco, ma dalle sue labbra non uscì alcun suono, ella voleva dire: “alla mia porta bussa la vita e non la morte”, il prete sfinito udì le parole non pronunziate e la consolò: “Rosellina, sono venuto a benedire te e il tuo piccolo che sta per nascere, anzi visto che è prematuro lo battezziamo subito perché il battesimo salva e guarisce, quando ti riprenderai concorderemo per il Battesimo ufficiale in Chiesa.

Aveva bisogno di un medico la piccola partoriente, ma il medico condotto dei tre piccoli paesini era sempre introvabile: amava molto la caccia e passava intere giornate e settimane fuori coi suoi cani e i suoi fucili; lasciava detto alla servetta che non lo dovevano disturbare per nessuna ragione al mondo, nemmeno se fosse morta sua moglie; infatti sua moglie in seguito fu colpita da ictus e morì dopo un giorno d’agonia, lui era a caccia rientrò dopo tre giorni e c’erano i funerali in corso: si strappò i bottoni della camicia e volle tirarsi i capelli che non aveva scorticandosi a sangue la luna e promise solennemente alla sua sposa Donna Eleonora estatica nella bella bara, e alla folla dei quattro gatti del paesello, che non sarebbe mai più andato a caccia, appese i fucili al chiodo e relegò i cani in giardino perché cacciassero i topi.

Mantenne la sua promessa per circa una settimana, il tempo del lutto canonico, e poi il grido dei cacciatori lo risvegliò, riprese in mano i suoi moschetti , liberò i cani e partì fra i boschi in cerca di lepri piccoline, smemorando così la sua promessa alla sant’anima di sua moglie.

Ovviamente quando lo cercarono per mia madre come al solito lui era a caccia e nessuno se ne meravigliò: scontato, tutto scontato! impensabile trasportare la giovane partoriente in ospedale (e come?! L’autobus per la città partiva la mattina e rientrava la sera e le macchine dei nativi ci stavano sulle dita rimaste di una mano mutilata ed erano introvabili: chi a caccia, chi al frantoio chi fra le coperte con il febbrone)

E così urlando Rosellina partorì: il suo bacino era stretto, l’anziana levatrice semicieca e invalida fece del suo meglio con il forcipe, ma non poté impedire che madre e figlia ebbero delle lacerazioni profonde, solo per volere divino io e mia madre restammo vive: mamma ebbe emorragie e complicazioni varie, ma Dio e la sua giovinezza l’aiutarono: aveva circa ventiquattro anni, ma ne dimostrava sedici per la sua piccola statura e i lineamenti di fanciulla pura.

Io ero così piccola che sembravo una pupattola di pezza strattonata: ero nata settimina, faceva freddo in quella serata del 13 Dicembre e stavo per morire assiderata.

Subito alla nascita fui la grande delusione di mio padre: malgrado le loro chiacchiere sui nomi, egli era certissimo che io fossi maschio e sentendo che gli era nata una femmina se ne andò sbattendo la porta; così restarono le curiose e provvide vicine con l’invalida levatrice. Sotto la sua direzione prepararono una cullina tutta imbottita d’ovatta e sotto la culla sistemarono un bel braciere: quella fu la mia incubatrice!

Il buon canonico si commosse, stringeva nervoso il suo fazzolettone ricavato da un vecchio lenzuolo tagliato a pezzi e si asciugava lacrime e sudore finché i suoi liquami non poterono essere più assorbiti dalla stoffa e scivolavano direttamente sul pavimento; quando ci fu un po’ di calma mi battezzò con l’acqua della fontana:

“Pietra Luce io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” ,

poi ci benedisse. Mai nome dato ad un figlio fu più appropriato del mio; infatti casualmente (si aspettava la mia nascita per metà febbraio) il giorno della mia nascita era il 13 Dicembre, Santa Lucia, il cui nome significa “Luce” e mia madre guardando con tenerezza la cuna nella quale ero adagiata ripeteva: ‘la mia piccola Luce, la mia piccola Luce…” e per lei anche se mi chiamavo Pietra Luce fui sempre e solo Luce!