venerdì 31 dicembre 2010

Pensiero a te


Com'è giocondo
quest'oggi il cielo
macchiato
d'ali nere
e alzati
azzurri stornelli
da donne alla fonte

Com'è lindo il pensiero
di ricordi
bagnato
battuto
sciacquato
giustificato

E guardate
quell'alma dorata
mirate
osservate...
di baci è vestita
e danza la sera
oro librato
sognato
donato...
...a te.

domenica 19 dicembre 2010

Quanto più...


Se...,
"Lavorare stanca"
quanto più
il taciuto pensiero
avvilita assenza
tacita presenza
spossata attesa.
Quanto più
sospeso io
essenza di dolcezza
oltre il giardino
affannosamente stracco
desiderio cerca.
E stanca
calpestata via,
trapassata, passata
è
rugata vita
di perdute innocenze
urlata e dolente.

martedì 23 novembre 2010

Scialle d' "A"


Scintille di danzanti dita
castigata
scarlatta pelle
imprimono
lettera.
Taciuta
fremente passione
su campo di sangue.
Sofisma d'alma
reproba
di scialle d' << A >>
coperta
copre bocche
a zolle
di turbato prato
rivoltato e dolente.
Uggisce fiore
d'ombra offeso.

lunedì 11 ottobre 2010

Tutto passa

S'abbassa il sipario.
Incompiuta tragedia tace.
teatranti strascicano passi...
umanizzati, chiudono scena.
Domani
un'altra farsa, atto dovuto
domina severa notte
su folli giri di giostre
giochi di vita
su ali di morte.
Non ti illudano le tenebre
e l'ombre non ti streghino...
Tutto passa
e luce fu.

mercoledì 8 settembre 2010

Quinto giorno


Quinto giorno:
Cammino
Fra brandelli di ricordi
intrappolati.
Sola,
indesiderata ospite
d'indifferente vita.
E fu sera...
ingabbiata anima
mura di carne e cemento,
del sogno prigioniera.
Sfarfallanti pensieri
mortificati
d'urticante memoria
urlano dolore.
E fu mattina...

mercoledì 18 agosto 2010

RADICI


Dell'innocenza ero amica,
a lei sussurravo
casti turbamenti.
E quando il mio capo poggiai
alla tua spalla, o mio diletto,
si fuse il nostro pianto
e piovve tribolata gioia.
Noi pensavamo
d'assoggettare il tempo
al desiderio
e ripiantar mutilate radici
in ignota terra.
Noi credevamo
d'aver forti pugni
e abbattere del tormento
l'infinita soglia.
Indenni varcammo vampe
e amare acque,
finché il cielo t'amò...
Ora monca,
raminga... aerea radichetta
anelo luce,
e seguo ombrose, dolenti orme
di vento ricamate,
digitanti la via del tuo sole.

Dedicata al mio sposo Nino "mon amour", nel giorno del suo compleanno:
nato il 19 Agosto 1948
morto il 23 Febbraio 2007
Con tutto il mio amore
Maria

sabato 14 agosto 2010

giovedì 12 agosto 2010

Cosette Miserabili - Cap. IV°


Fra i figli dei morti

Rivivo ancora l'angoscia quando persone sconosciute vennero a prendermi; c'era la mamma col suo vestito della festa che dormiva su quel bislacco letto, coperta di fiori e con tante luci attorno; sembrava la Vergine nella sua ‘dormitio’; io che le giravo intorno piangendo: 'svegliati, svegliati...'
Era tutto così strano e per la mia mente piccolina difficile da capire.
Ero sola fra i dolenti.
Cercavo un volto amico.
Il dottor Costante terreo, stava inchiodato al suolo come un'avvilita statua. Non si accorse di me.
Mi avvicinai a zia Marella, ma mi fulminò con uno sguardo minaccioso.
Pur mezza accecata dalle lacrime e dalle luci mi accorsi con stupore che mia zia e le prefiche ladre si erano ingrassate smisuratamente come per magia: da una S erano diventate una tripla XXXL, si muovevano lentamente con precauzione continuando a fare il loro ipocrito doloroso lamento.
In seguito seppi dalla dolce amica di mamma, che le prefiche erano diventata di botto così obese, perché sotto le gonne e nei corpetti si erano imbottite di tutto il corredo di mamma.
Nessuno mi vedeva, ma loro sì, e se mi azzardavo a guardarle il loro volto si faceva minaccioso.
Non permisero alla povera Tessy di entrare, e lei distrutta e disperata mi guardava da lontano.
Provai un senso di smarrimento e abbandono totale.
Continuai a girare attorno alla mamma tirandole le mani e invocandola di svegliarsi.
Volevo uscire dal mio incubo e dalla desolazione che mi sommergeva.
Qualcuno si avvicinò a me e iniziai a strillare disperata: nessuno doveva toccarmi!
Solo le braccia di mio padre mi calmarono, finché mi addormentai e mi adagiò nella mia piccola cuna.
Mi svegliai sentendo di nuovo pianti e singhiozzi ancora più forti degli strascicati lamenti che graffiavano l'anima.
Mi aggrappai alle colonnine della culla cercando di capire cosa stesse succedendo: vidi mamma sempre addormentata, che se la stavano portando; misero un coperchio a quell’odioso e strano letto dal quale non si alzava.
Mamma fu chiusa con i chiodi e restò prigioniera nella sua brutta scatola..
E via.
Poi vennero da me, ma ero diventata una piccola statua di pietra con la forza di un Sansone: nessuno riuscì a strapparmi dalla culla.
Così dalla casa uscirono due cortei: uno con la bara di mia madre verso la Chiesa; e l'altro con una piccola culla di legno intagliato con me dentro assieme ad una bella trottola colorata, verso l'orfanotrofio.
In seguito Tessy mi raccontò che il funerale di mamma Rosellina fu un’apoteosi: partecipò tutto il paese, piangevano tutti, anche i sassi, non si sentiva un alito nell’aria: i passeri si zittirono e gli agnelli smisero di belare.
Celebrarono il sacro rito dei defunti tre Alti Prelati, c’era il coro e la banda del paese.
Qualcuno attorno alla bara vide degli Angeli piangere.
Fu visto anche il farmacista Saro Melilli, ex fidanzato di mamma, vestito a lutto stretto, nascosto dietro l’ultima colonna della Chiesa, e … pianse tutto il tempo!
Al ritorno dal cimitero il primo fidanzato di mamma venne all’orfanotrofio e consegnò alla Superiora quattro foto di mia madre, chiedendole di custodirle gelosamente e darle a me e alla mia sorellina se fosse sopravvissuta, quando fossimo più grandicelle.
Ad onor del vero la Superiora me li consegnò il giorno della mia Cresima, avevo nove anni non compiuti, e pur essendo ancora piccola, ero una donnina assennata e le custodii gelosamente. D’allora sono sempre con me; e meno male che l’innamoratissimo farmacista ci diede queste foto, sono le uniche in mio possesso, perché purtroppo dopo il secondo matrimonio di mio padre avvenuto tre mesi dopo la morte di Rosellina, scomparvero tutte le foto di mamma, comprese quelle fatte con me.
Anche le mie foto di bimba piccina, svanirono nel nulla.
Qualche mala lingua disse che fummo bruciate vive.
Non so dopo quando tempo tornò papà, forse un'ora o due dal mio arrivo all’orfanotrofio; mi sollevò dalla culla con le sue braccia calde e forti.
"Mamma si è svegliata, si torna a casa" pensai raggiante.
Ancora non sapevo che il suo funerale s‘era concluso da qualche minuto.
Mi posò per terra e se ne andò.
Sentii il cigolio dei suoi passi che s'allontanavano.
"Dove sono?" chiedevo piangendo.
Una ragazzina dagli occhi spiritati cominciò a gridare:
"sei tra i figli dei morti" ,
"sei tra i figli dei morti"
"sei tra i figli dei morti ...”
"Non è vero..., non è vero..., non è vero!"
"Si, sei tra i figli dei morti, tutti qui siamo i figli dei morti"
e iniziò una danza macabra:
"figli dei morti, figli dei morti, figli dei morti, ... morti... morti... mortiiii... mortiiiii... mortiiiiiiii........"
L’eco mi feriva l’anima e il cuore.
Mi coprii le orecchie. Mi rifiutai di parlare, bere, mangiare..., il tempo passava e io rimasi rannicchiata nella culla cercando profumi e odori dimenticati.
Finché arrivarono due donne bruttine ed ineleganti, vestivano tutte e due allo stesso modo, mi sembrarono ridicole; una sollevò un indice lunghissimo più lungo della spada di Zorro, e mi parve volesse infilzarmi come un galletto: e, “guai a te se ti fai la pipì addosso o bagni il letto … guai, vedrai quello che ti succede”
“che mi succede?” “che mi succede?”
Ero terrorizzata.
“ti tagliano a pezzettini” mi bisbigliò una bimba.
Non bagnavo il letto e non mi facevo la pipì addosso da oltre un anno, mamma un giorno mi aveva regalato un bel vasino tutto rosa e per la pipì di notte e di giorno usavo quello; per la popò, mia madre mi sedeva sul water e mi teneva sotto le ascelle finché non finivo.
Mi spaventai così tanto che le mie funzioni naturali si bloccarono: il primo giorno non feci i miei bisogni: ne’ pipì, ne’ popò, ovviamente se ne accorsero; si avvicinò un cerbero-donna e strattonandomi per un braccio cominciò ad urlare: “ è finito il tempo che Berta filava …!”
“Che vuol dire?” chiedevo con gli occhi, troppo spaventata per parlare.
La piccola sapiente che m’aveva illuminata dicendomi che m’avrebbero tagliata a pezzetti, sussurrò mentre mi portavano via “vuol dire che qui non puoi fare quello che vuoi ‘tu’, ma qui si fa sempre quello che ‘loro’ vogliono.”
“Ora tu la fai, te lo dico io che la fai” continuava ad urlare la santa vestale; tremavo come un pulcino e di botto mi ritrovai seduta sul gabinetto e il cerbero-donna tirò lo sciacquone.
Non auguro a nessuno il terrore che si impossessò di me: mi tenni forte ai bordi, ero convinta che la monaca volesse liberarsi di me facendomi scivolare con l’acqua nella fogna., e la corrente mi avrebbe trascinata negli inferi.
Oltre lo sciacquone, di colpo per la paura si aprì anche il mio rubinetto, cominciai ad urinare e ne feci almeno un litro!
La lezione mi servì, dopo d’allora andavo da sola in bagno arrampicandomi sul gabinetto, sempre tenendomi ben forte ai bordi per il terrore di scivolarvi dentro.
Invidiavo le monache, alte, segaligne, asettiche: non le vedevo mai andare in bagno, erano sempre perfette e pulite, vere vestali di Dio! credevo fossero delle privilegiate: loro erano esenti dalle brutture e i fetori dei gabinetti: questo era un castigo del cielo riservato ai piccoli per le loro monellerie …!
Non c’era carta igienica e le piccole si pulivano alla carlona, ognuna si arrangiava come poteva; qualcuna usava gli indumenti che indossava e al suo passaggio morivano le mosche.
Ricordo che una fanciulla più grandicella, avrà avuto otto o nove anni, con molto coraggio andava nel ripostiglio e ci riforniva di vecchi giornali che religiosamente tagliavamo a pezzi e ognuna nascondeva il suo bottino da usare nella necessità. Io nascondevo gelosamente i piccoli pezzi di giornale sotto il materassino della culla, cercando di farli durare il più a lungo possibile e trattenendo l’istinto ad andare in bagno per giorni: mi si chiuse lo stomaco e divenni irrimediabilmente stitica!
Il buon medico Costante, amico del nonno col quale condivideva l’amore per la caccia e il vino, e che aveva cresciuto e curato mamma e me, di tanto in tanto veniva all’orfanotrofio. Mi rideva il cuore alla sua vista, mi prendeva in braccio e io giocavo con le sue orecchie rosse lunghe e larghe, con ciuffi di peli che gli uscivano dai fori e i bordi morbidi e pelosi rasati come prato inglese.
Restava pochi minuti e se ne andava.
Un giorno, era passato erano passate circa tre settimane dalla morte di mamma, sembrò particolarmente colpito dal mio aspetto. Mi guardava a lungo, osservandomi con pena.
Si era già accorto del mio vistoso dimagrimento: avevo perso il mio bell’appetito, ero arrivata bimba florida con le guance rosse e le gambette sode, e in meno di un mese m’ero ridotta una vecchina con la pelle penzolante che cadeva ogni due tre passi; così dopo avermi toccata le braccine magre come rami di giovane arbusti e sfiorate le dite sottili come steli di fiori, mi prese in braccio e con gli occhi lucidi disse:
“figlia mia, dove t’hanno portata?!”, era una riflessione che fece sottovoce a se stesso, ma io la intesi come domanda e gli sussurrai nel suo grande orecchio: “sono tra i figli dei morti”; fece un balzo e per poco non cascai per terra, il suo viso divenne paonazzo come le sue orecchie.
“chi ti ha detto queste corbellerie? Non è vero!”
“sì, è vero, è vero. Tutti qui siamo figli dei morti!”
E con lo sguardo gli accennai le bimbe che strepitavano, cantando il loro macabro ritornello.
Il dottore mi visitò dalla testa ai piedi, facendomi di tanto in tanto qualche domanda; poi scuotendo la testa, mi posò per terra e dopo una carezza andò a parlare con la Superiora.
Mi allontanai piano cercando rifugio nella mia culla, l’unico posto che riconoscevo e che sentivo far parte di me e del mio passato, lì cercavo il profumo della mamma e tentavo di ricordare la nenie e le fole che cullandomi mi cantava; e lì passavo la maggior parte del tempo, con le orecchie e gli occhi sgranati cercando di captare e capire ciò che succedeva intorno a me.
Fortunatamente malgrado la durezza del loro cuore, le Vestali mi lasciarono dormire nella mia culla col materassino di lana e le lenzuoline ricamate dalla mamma. Le altre bimbe dormivano su sacchi riempiti di paglia secca, solo alle più grandicelle veniva concesso il fieno.

lunedì 9 agosto 2010

Poetando... spennellando: Poetando... spennellando: La Noia

Poetando... spennellando: Poetando... spennellando: La Noia

Poetando... spennellando: La Noia

Poetando... spennellando: La Noia: "Non desidero aspettare o affrettarmi. Sono vecchia e stanca. E' morto il desiderio dei miei bianchi profili e di Ruth obbediente. L'ironia ..."

La Noia


Non desidero aspettare
o affrettarmi.
Sono vecchia e stanca.
E' morto il desiderio
dei miei bianchi profili
e di Ruth obbediente.
L'ironia
di queste donne sagge
e il richiamo
dei miei sogni
intessuti di fede acerba
bastano
a nutrire l'indifferenza.
La noia è in questo sasso
dove vive e muore
quel verme solitario.

Maria Savasta
Una poesia della mia adolescenza (15 anni circa) pubblicata dall'Editrice Letteraria Arpa -
Poeti e scrittori contemporanei - nel 1972 (qualche anno dopo)


Traduzione in Lingua Araba di Selma Bel Haj Mabrouk


أنا لا أحب الانتظار
أو الضغط.
عجوزة ومتعبة.
...والرغبات ميتة
ملامحي البيضاء
رحيمة ومطيعة.
غير أن سخرية
هذه النساء الحكيمات
ورجع صدى ذكريات احلام

غير ناضجة
منسوجة من الاعتقاد
أشياء كافية
لتقود إلى لامبالاة الميناءء
المقلق
أن هذا الحجر
يحيا ويموت
مثل دودة وحيدة


Il mio Spielberg...?!
Quasi...

L'ironia di queste donne sagge...

lunedì 14 giugno 2010

La Notte Tesso Tele


Nella vigna fiorita
il mio diletto
di baci m'ha imperlato
il collo,
gemme di poesia piovute
dai suoi labbri
s'adagiano lievi sulla coppa
del mio seno,
e stupita bevo
nettare di passione.
Ora voglio dirti
che non danzano le ore
e il nostro canto
tace.
La notte tesso tele
di parole,
malinconiche elegie
spedite al tuo cielo,
dalle stanze del mio silenzio:
tormentata attesa...
E disfa l'aurora
il mio desio.

12 – 06 - 2010
Qui es? Ubi tu Gaius, ibi ego Gaia.

martedì 25 maggio 2010

Il tuo canto spezzò il chiavistello

Quale gioia
quando i tuoi piedi
si fermarono alla mia porta,
e il tuo canto
spezzò il chiavistello
del mio amore:
“Come sei bella,
stella d’oriente
caduta
sul mio palmo.
Amica del mio tempo,
lava nelle vene
sussulto.
Mi hai stregato il cuore
mia bella;
al cielo hai rubato
gli occhi,
e messi di giugno
ondeggianti al vento
i tuoi capelli.
Nel castello della luna
violerò i tuoi sogni
per dipingerli
di prato e porpora,
e un'ala d'ardore mio
attaccherò al tuo
e nel fuoco voleremo
in eterne fiamme,
consumati”

giovedì 6 maggio 2010

Com’eri bello, leone guerriero!


Memento, In oscura gola
perduti
fra profumi d’umide rocce
e fiori di vento,
in imo d’Alcantara;
e mi hai unto, col tuo bacio
regina.
Com’eri bello, leone guerriero,
com’eri bello
negli antri deserti del fiume
in quell’ora di maggio!
Dolce albero fra amari limoni,
roccia in onde di rena ,
ferma torre su sbricia terra.
Nera seta di Cina i tuoi capelli,
spruzzi di luminoso stupore
sui tuoi cigli:
sospiro di fanciulle!
Forte il tuo braccio,
e il tuo verbo dolce al palato.
Ebbra bevo odorosi ricordi
di mosto e felci,
oceano e muschi.
Com’eri bello, leone guerriero,
com’eri bello!

mercoledì 5 maggio 2010

Cosette Miserabili

Morte di Rosellina

Ero ancora una bimba felice che viaggiava fra le nubi!

Io e mamma quando papà era di servizio in una stazione vicina, prendevamo un piccolo trenino sbuffante. Mamma contraria al panino imbottito, preparava un pasto caldo per papà e glielo portavamo. Il tragitto in treno era circa di tre quarti d’ora, e si attraversavano un paio di gallerie: sbarravo gli occhi in cerca della luce, e mamma mi stringeva a se dicendomi di non aver mai paura: “io sono sempre con te”, mi ripeteva.

Poi tutte e tre in un angolo appartato, nell’ora libera di mio padre pranzavamo.

I ricordi dei nostri pranzi, mi fanno ancora soffrire: di certo ero una bimba egoista e golosa; svelta di mano vuotavo il mio piattino e con lo sguardo furbetto toglievo il cucchiaio o la forchetta a mia madre e in un batter d’occhio spazzolavo tutto ciò che c’era nel suo piatto.

Lei mi guardava ridendo e mi lasciava fare: non mi accorgevo che aveva mangiato pochissimo.

Papà era distratto.

Di ritorno a casa attraversavamo il Corso Matteotti, la via più importante del paese; lì proprio a metà strada c’era un negozio grandissimo e luminoso, col pomposo nome “Gran Bazar” e lo era veramente! C’era di tutto, i bambini come i muli si fermavano e non c’era verso di farli andare avanti.

Le donne sfogliavano belle stoffe colorate, o compravano trucchi e belletti, gli uomini trovavano i sigari dell’avana, cartucce da caccia, carte da gioco, liquori pregiati ecc., non mancavano oggetti dei desideri adatti a tutti: ninnoli, suppellettili, ombrelli, occhiali, lampade, ventagli, spezie varie, utensili da cucina e per il “fai da te” … e per i piccoli era l’Eden: caramelle e leccornie d’ogni tipo, giocattoli meravigliosi: bambole dallo sguardo stupefatto, casette per le pupe, vestitini in miniatura, cavallini a dondolo, pistole e fucili, cinturoni da caw boy, maschere di Zorro ecc..

Ma quello che colpiva la mia fantasia e desideravo con tutta l’anima era la trottola; ce n’erano di tutti i gusti: di legno piccole e grandi, colorate, con la luce, e altre grandi che quando giravano oltre ad illuminarsi suonavano una bella musichetta.

Misi in croce mamma perché mi comprasse la trottola, ogni volta che passavamo dal Gran Bazar, anch’io mi impuntavo e non volevo andare avanti, volevo la trottola di legno quella con il chiodo sotto, non m’importavano tutte le altre trottole eleganti e costose: volevo quella!

Spesso in piazza o sul marciapiedi vedevo i maschietti giocare con la trottola di legno, vi avvolgevano lo spago e la lanciavano, alcuni la prendevano fra le dita e continuava a girare, la posavano in terra e quella ancora girava: una meraviglia!

Facevano fra di loro delle vere e proprie gare ed io li ammiravo moltissimo.

Ricordo che un giorno, avevo giusto due anni e mezzo, eravamo a metà giugno, per la precisione il 13, mamma mi lasciò da Tessy e al ritorno mi fece una bellissima sorpresa: a tavola accanto al mio piatto c’era un pacchetto tutto colorato.

Mi brillarono gli occhi.

E’ tuo, per il tuo mezzo compleanno “ mi disse mamma abbracciandomi. Infatti quel giorno finivo i miei due anni e mezzo.

Quando compirai tre anni, faremo una bellissima festa”

Ogni tredici di mese mamma aveva un pensierino particolare, ma quel giorno fu’ molto particolare, quasi una vera festa, anche se eravamo solo noi due.

Forse le madri parlano con gli Angeli, forse nel suo inconscio sentiva che per il mio terzo compleanno nessuno si sarebbe ricordato della sua piccola Luce.

Chissà, il suo cuore avrà avuto come una premonizione e prima d’andarsene volle festeggiare con me, il mezzo compleanno …!

Scartai con cura il regalo, e … oh meraviglia! La trottola più grande e più bella quella che si illuminava e suonava era emersa come una Dea fra le onde di carta.

Sgranai gli occhi, la delusione fu grande: non era la mia trottola di legno con il chiodo appuntito sotto e la cordicella che si attorcigliava attorno, e poi saltava e saltava, girava e girava, si nascondeva e ancora girava …!

Non volevo far capire niente a mamma che adoravo, ma lei se ne accorse subito. Mi prese in braccio “mia piccola Luce, la trottola di legno è troppo pericolosa per i bambini piccoli; il chiodo appuntito può fare tanto male se non si sta’ bene attenti. Questa è adatta alla tua età, ti prometto che quando sarai più grande ti comprerò la trottola di legno. Intanto vieni”, e mi portò nella mia stanzetta.

Vicino alla culla c’erano tre vestitini estivi stupendi: uno bianco e rosa, uno azzurro, e l’altro lillà, con il corpetto ricamato a punto smoking e le maniche corte a sbuffo; un incanto! Naturalmente ogni vestitino aveva abbinato un bel nastro per capelli e le calzine corte dello stesso colore.

Come per magia la mia delusione svanì come neve al sole, ero felicissima ! Li volevo indossare subito e cominciai a cinguettare felice, saltellavo girando attorno ai vestitini, li accarezzavo, li stringevo al petto. Già m’immaginavo come sarei stata bellina ed elegante con le braccine scoperte e i vestitini colorati che danzavano ad ogni mio passo !

Sì, erano proprio belli ed io ero una bambina fortunata.

Tornammo a tavola per festeggiare il mio metà-compleanno, vidi la grande e bella trottola tutta colorata abbattuta su un lato e mi sembrò infelice, mi sentii in colpa, la presi e ma la strinsi al petto.

Mi accorsi che era bella e se la premevo di sopra, anche lei girava e girava.

D’allora fu la mia fedele compagna di giochi e l’unico giocattolo che con me entrò in orfanotrofio alla morte di mamma, visto che lo tenevo sempre con me o dentro la culla.

Finimmo il nostro pranzo con il dolcetto finale e al mio solito spolverai anche il piatto di mamma che stanca aveva appoggiato le sue posate sul tavolo. Eravamo sole, mamma aveva preparato a sufficienza anche per papà o se si voleva fare il bis; ma lei non si servì di nuovo, non mi accorsi che aveva mangiato pochissimo.

Papà non c’era ; lo aspettammo a lungo, rientrò nel pomeriggio.

Mamma aveva lo sguardo di una ‘Mater Dolorosa’

Solo dopo la sua morte un giorno sentii il medico dire a proposito della morte di mia madre: “era prevedibile, troppo anemica, denutrita e fragile, pensava troppo agli altri e mai a se stessa. Sono certo che non mangiava a sufficienza”

Mi sentii morire pensando che io e solo io le toglievo il cucchiaio di mano per finire la sua minestra! Ero io la causa della sua morte. Se l’avessi lasciata mangiare mia madre sarebbe viva!

E piangevo.

Mi sentivo l’assassina di mamma.

Il giorno della mia prima confessione, avevo da poco compiuto quattro anni, alla domanda del parroco “che peccati ricordi?” risposi: “mamma è morta per colpa mia, mangiavo la sua minestra e lei restava digiuna”; era la prima volta che confidavo il mio segreto a qualcuno, ma non mi sentii affatto consolata nemmeno dopo che il buon Prete cercando di tranquillizzarmi, mi disse che io non c’entravo per nulla.

Ma io continuai a rodermi l’anima, perseverando a confessarmi sempre lo stesso peccato, non sentendomi perdonata. Ovviamente non era Dio a dovermi perdonare un peccato inesistente, ma dovevo essere io a risanare la mia memoria.

La vita cresceva prepotente dentro di lei, mamma era sempre più stanca e non andavamo tanto spesso alla magica fonte; continuava da abbracciarmi e a tenermi sulle braccia con amore, ma spesso era così affaticata che con me sulle braccia, il suo passo rallentava.


Un episodio che si fissò indelebilmente nella mia memoria, risale ad uno degli ultimi giorni prima della sua morte; mamma ed io uscimmo per andare da una sua amica a fare due chiacchierelle all’ora del tè; io stavo appollaiata sul suo seno con le braccia avvinghiate al collo, incontrammo una paesana che guardando con commiserazione mia madre, le disse:

Rosellina, nelle tue condizioni porti in braccio la bimba! Scendila, ha le sue gambette, è sana e forte, può camminare benissimo da sola”.

Lascia stare, non pesa” rispose dolcemente la mamma.


Io per la prima volta in vita mia provai un sentimento di rabbia, molto simile all’odio.

Se avessi potuto avrei incenerito con lo sguardo quella donna, eccome se l’avrei fatto!

E mi strinsi alla mamma ancora più forte.


Una dolce mattina di metà settembre, mamma pallidissima mi disse, “vai da Teresa (era la sua vicina e amica del cuore) e chiamala subito”, capii subito che qualcosa di grave stava succedendo e uscii urlando “Tessy … Tessy … Tessy …”


L’amica del cuore di mia madre mi prese in braccio e da lontano vidi Donna Liberata che con la sua carrozzina spinta dalla servetta si dirigeva verso casa mia.

Restai dalla vicina per mezza giornata circa, finché non mi riportarono a casa.


Non riconobbi subito il mio ambiente: mamma era in uno strano letto e dormiva, vestita col suo abito bello, quello della festa.

Rosellina era morta di parto, dando alla luce la sua seconda figlia: la mia piccola sorella.

Mio padre passeggiava nervoso fumando una sigaretta dopo l’altra, tutt’intorno urla e lamenti.


Mi accorsi che le buone vicine e zia Marella, oltre a tirarsi i capelli e a fare il lamento, litigavano fra di loro tirandosi dalle mani tutte le cose belle di mamma: aprivano e chiudevano i cassetti, si divisero a sorteggio oro e argenteria, e il meraviglioso corredo di lino, seta, bisso e cotone damascato se lo tiravano dalle mani cercando ognuna di accaparrarsi il pezzo più pregiato, fermandosi urlando non appena si accorgevano che qualcuno della famiglia si avvicinava a loro Proprio vero il detto “la dove c’è il cadavere ci sono gli avvoltoi”!

Svaligiarono tutta la casa con la complicità di zia, perché lei si prese tutte le cose più belle, compreso il meraviglioso collier e l’anello col solitario, lasciando alle prefiche il resto; così tutte colpevoli avevano ogni interesse a tacere e a coprirsi l’una con l’altra; e nella casa vuota restò solo mia madre nella prima stanza, quella del salotto-soggiorno, con i suoi fiori e le candele accese come si fa con i santi.

Qualcuno si incaricò di portare subito la piccola appena nata, battezzata in fretta e furia con il nome di Grazia Donata, in un brefotrofio di Siracusa, perché non si trovava una nutrice, altrimenti sarebbe morta anche lei.

Quel triste giorno di metà Settembre finì la mia infanzia: avevo due anni e nove mesi.

giovedì 22 aprile 2010

Cosette Miserabili - Romanzo


Capitolo II° Parte I°

Ninna nanna di Brhams

Cantava la mamma col suo fantolino in braccio: era felice! ero la gioia del suo cuore, la sua Luce, “luce dei miei occhi, luce del mio cuore, luce della mia vita, luce dei miei giorni, luce della mia notte, …” ripeteva stringendomi al cuore.

Adattò come ninna nanna un canto natalizio di Brhams, e cullandomi fra le braccia cantava sottovoce:

Ninna nanna mio ben riposa seren

dormi dormi così fino al sorger del dì

Quando l’alba verrà sorgerai dal lettin

se il Signor lo vorrà sorgerai o bambin.

Ninna nanna mio bel riposa seren

un angiol del ciel ti vegli fedel.

Una santa vision faccia il sol irradiar

Una dolce canzon possa i sogni cullar.

Buona notte piccin riposa carin

Riposa tranquil bambina gentil …

Alcune pie vicine, beghine col fazzoletto in testa e la corona in mano, si scandalizzarono sentendo le nenie della mamma:

“Rosellina, non devi cantare così, è eresia, fai peccato. Questa è la canzone che la Madonna cantava a Gesù Bambino, nessuno può cantarla: è riservata a Gesù e Maria.”

Piuttosto impara questa: è la ninna nanna che da sempre hanno cantato le nostre donne:

“ninna nanna ninna oh

fai la ninna, fai la oh,

picciridda do me cor

ninna nanna ninna oh.

E se tu nun voji durmiri

cauci e pugni

‘sa quantu ‘n’aviri.

E ‘naviri cincucentu

figghia d’oru

e figghia d’argentu”

Mamma rispose: “la Madonna come me ha portato in grembo Suo Figlio, come me lo ha allattato, non è mai stata gelosa di lui e del Suo canto, quindi la Sua ninna nanna è anche la mia” e nel suo cuore aggiunse “via brutte streghe ipocrite e farisee che promettete ai vostri bimbi calci e pugni se non s’addormentano subito!” ; e continuò a ninnarmi canticchiando la nenia di Natale.

Il secondo Battesimo, quello canonico, (il primo l’avevo già avuto al momento della nascita visto che stavo per morire) fu rimandato perché i miei futuri padrini, dei nababbi amici del nonno materno, erano residenti in Libia e si aspettava che venissero al paesello per il grande evento.

Parte II° - Fra una danza e una tarantella

Il nonno, da tutti riverito e onorato era conosciuto come “Don Vicenzu” abbreviazione siciliana di “Don Vincenzo” datagli dai mezzadri in segno di rispetto, era rigoroso e freddo in famiglia e con i suoi subalterni. In compenso la sua cantina traboccava d’ogni ben di Dio: salumi, formaggi, olio, legumi, fichi secchi e uva passa, conserve varie ecc., ecc.. Nonno era ricchissimo e si sentiva un semi-Dio: tutti dovevano fare il suo volere!

Nonno faceva parte dei notabili che ogni paese che si rispetti ha: il Sindaco (per l’appunto il nonno), il Canonico, il Medico, il Farmacista; questi erano l’intellighentia.!

Don Vicenzu era l’Autorità incontrastata: ricco sfondato, Epulone del suo tempo, eletto sindaco in ogni legislatura, amava la poltrona e il potere, la pensava esattamente come il famoso eterno politico italiano che dice: “il potere logora chi non ce l’ha”

Il Canonico, un metro e cinquanta di Fede e di dubbi, sembrava un birillo nero rotondetto che camminava rotolando. Era buono: ligio al suo dovere , pronto a dir messa la mattina e alle benedizioni vespertine; non si faceva pregare a correre presso i moribondi e andava in sollucheri quando celebrava matrimoni e battesimi.

Non credeva ai mistici e alle visioni, se qualcuno gli confidava d’aver visto la Madonna si innervosiva e rispondeva così : “hai fatto indigestione?!” o se l’anima eletta era troppo macilenta gli diceva: “figlio mio, fai troppi digiuni, vedi di riempirti la pancia e questi malesseri (sottinteso,visioni) passeranno.

‘Mai che un predicatore
avesse il grugno
di dire."Io non ho
per voi certezze,
ma di fragili speranze
solo un pugno". Gilberto Fanfani’

Abitava con sua sorella che adorava e con la quale condivideva il letto e le grazie. La poverina viveva come una monaca di clausura, non le fu mai permesso di fidanzarsi o di guardare un uomo: era sua e lui le bastava! Non usciva mai ad eccezione della domenica quando il buon Canonico le permetteva di partecipare alla Messa dell’alba, da lui celebrata, e seguita solo da quattro frettolosi gatti che non vedevano l’ora che finisse per correre nei campi. Durante la consacrazione, nell’ostensione della Sacra Ostia, il suo sguardo innamorato con un lungo raggio raggiungeva sua sorella, Donna Filomena, adorandola!

La messa mattutina era l’ideale per soddisfare il precetto, e la carne della sua carne era preservata da sguardi impuri e desideri licenziosi.

Il medico Costante, come già abbiamo visto era sempre irreperibile: amava la caccia e il buon vino rosso, e la sera al ‘Circolo Culturale’ non mancava per infinite giocate a carte e alzate di bicchiere.

Il farmacista Raffaele aveva l’aria dell’asceta, alto e magro, silenzioso, conosceva una sola parola ’benedicite’ che dispensava generosamente alla plebe ossequiante. Stava quasi sempre sul retro della farmacia con le sue ampolle e alambicchi a preparare miracolosi rimedi.

Questi i quattro Cavalieri del glorioso Kars da tutti riveriti ed ossequiati.

In secondo piano nel rispetto popolare venivano: il Maresciallo, il Bancario, l’Esattore, l’Assicuratore.

Per ultimi venivano gli Insegnanti.

Mia madre fu la delusione della vita di suo padre: aveva investito su di lei facendola studiare nel Collegio più prestigioso di Catania, riservato a ricche signorine figlie di buona famiglia, dove oltre la letteratura e le scienze matematiche, filosofiche e fisiche si studiava anche musica, canto, danza e buone maniere; il galateo era libro di testo!

Rientrava a casa a Natale, Pasqua e nel periodo estivo per trascorrere le vacanze in famiglia.

Nonno Vincenzo aveva promesso in sposa la sua Rosellina piccolina d’altezza, ma bella ed intelligentissima, ad un ricco farmacista di un paese vicino, più grande di lei di circa vent’anni, ma con un carattere dolce e buono e proprietario di terre, ville e appartamenti sparsi un po’ dappertutto nell’isola e su in continente.

Aveva circa tredici anni quando mamma conobbe il fidanzato scelto per lei dal padre. Cominciò a scrivergli biglietti e letterine che, come sperava il nonno dovevano essere d’amore, erano invece educate e amichevoli.

Finì con l’affezionarsi al promesso sposo, ma senza passione; passava le estati e le feste ospite dei genitori di lui nella villa di villeggiatura immersa nel verde.

Fino a diciotto anni, quando completò i suoi studi e la sua educazione nell’esclusivo collegio per ricche signorine, la sua vita trascorse serena: era una fanciulla fine, senza grilli per la testa, un gioiellino di cui essere fieri.

E il nonno lo era: l’amava totalmente, le aveva fatto da padre e da madre, visto che sua madre, cioè mia nonna, seconda moglie del nonno, era morta dandola alla luce.

Nonno non si risposò più ed ebbe per lei tutte le cure e attenzioni paterne e materne; pensò anche al corredo fatto arrivare appositamente dalla Francia e da Firenze.

Per le trine e i merletti scelse i più costosi e pregiati: il merletto d’Alençon (Francia), il Cantù e il tombolo da Venezia.

Sapienti ricamatrici creavano poi capolavori applicando le trine alla seta, al lino finissimo, al bisso.

Senza considerare le meravigliose tovaglie e i coprilètto damascati rifiniti in frivolitè o macramè.

Don Vincenzo realmente pensò a tutto, il corredo di Rosellina era l’invidia e l’ammirazione di tutte le fanciulle da marito e delle loro madri.

Quando compì diciotto anni, nonno con l’aiuto delle signore mogli dei contabili del paese, organizzò per la figlia una magnifica festa per il suo ingresso ufficiale nella società.

Naturalmente era invitato il giovane (si fa per dire, visto che aveva trentotto anni) farmacista fidanzato di Rosellina.

E …, il diavolo ci mise la coda. Quella sera fra una danza e una tarantella mamma conobbe mio padre, e fu amore a prima vista!

Prima si incontrarono i loro sguardi, poi i loro cuori palpitarono all’unisono, in fine furtivamente si unirono le labbra.

Il farmacista Melilli li guardava da lontano tormentandosi l’anima.

I due ragazzi si appartarono per presentarsi e conoscersi meglio. Mio padre era bello come un dio greco: alto (un metro e ottantadue), biondo dorato, occhi verde-azzurri, cangianti secondo il tempo e l’umore; quando si adirava le sue iridi diventavano plumbei e mandavano bagliori come un cielo in tempesta.

Mamma era una miniatura: piccola di statura (un metro e cinquantacinque circa), ma ben formata e con un ovale da madonna, sembrava una statuina di porcellana, i suoi occhi erano ambrati e i capelli castano chiari lunghi e inanellati.

Una bella coppia, niente da dire.

Flavio raccontò alla piccola Rosellina le sue avventure; già da qualche anno si trovava a Kars, giovanissimo quasi alla fine della guerra era stato chiamato alle armi, ma subito fatto prigioniero dai tedeschi e deportato in un campo di concentramento.

Vi restò per sei mesi circa patendo fame e freddo, nel frattempo con altri due italiani organizzarono la fuga che poi fortunosamente riuscì: erano terrorizzati e ad ogni minimo rumore si nascondevano nelle cunette o fra i cespugli.

Uno di loro morì per strada di fame, freddo e forse polmonite, perché scottava e aveva problemi di respirazione. Lo seppellirono alla buona e continuarono il loro cammino.

Arrivarono in Italia dopo un paio di mesi di peripezie, il suo compagno cercò subito le autorità militari, ma trovò il caos. Papà preferì tornare in Sicilia, ma nel timore d’essere accusato di diserzione, non andò da sua madre, ma venne a Kars cercando rifugio e protezione.

Era magrissimo, sporco e malconcio; nonno lo accolse come un figlio,lo fece curare e poi gli offri di lavorare per lui assieme ad altri mezzadri nelle sue tenute.

Egli accettò riconoscente e, visto che aveva studiato divenne presto ‘Amministratore’ e uomo di fiducia del nonno.

Ormai la guerra era finita da oltre tre anni in tutta Italia, ma Flavio trovandosi bene, era rimasto.

“Avevo sentito parlare di te, ma non ti avevo mai vista. Dicono che sei quasi sempre a Catania per i tuoi studi”

‘Sì, è vero, ma ora li ho completati e sono tornata per sempre’

“dicono che sei fidanzata”

‘si, è quell’uomo li in fondo; l’ha scelto papà: è farmacista.’

“lo ami?”

‘Non so … gli voglio bene. E’ molto carino con me e i suoi genitori mi adorano.’

Mamma si innamorò perdutamente di mio padre, perse letteralmente la testa per lui. Mio padre bello ed aitante era corteggiato e conteso da tutte le fanciulle, ma lui si sentì scelto e prediletto da Rosellina visto che era la figlia del suo capo, nonché sindaco del paese.

Cominciarono a frequentarsi di nascosto di tutti; Rosellina prendeva la sua bicicletta e quando sapeva che non c’era suo padre andava da Flavio.

Così per un paio d’anni. Finché suo padre decise che era ora che sua figlia andasse sposa, era sui vent’anni e gli sembrò un’età ragionevole, anche perché non voleva far invecchiare troppo il farmacista Saro Melilli.

Iniziarono i preparativi, Rosellina si disperò. Flavio senza nessun preavviso fece armi e bagagli e partì. Doppio dolore per la fanciulla. Suo padre come tutti i genitori, malgrado qualcuno chiacchierasse in paese, non s’era accorto dell’amore impossibile di sua figlia per Flavio.

Quando questi scomparve si adirò molto sentendosi tradito nella fiducia.

Rosellina sembrò impazzita: tutti i giorni correva alla fermata dell’auto sperando di vederlo comparire, guardava speranzosa tutte le macchine dei forestieri di passaggio da Kars, col desio di veder scendere Flavio, chiedeva al postino se ci fossero lettere per lei, supplicandolo eventualmente di dargliele lontano da occhi indiscreti, specialmente da quelli di suo padre … ma fu tutto inutile: Flavio sembrava scomparso nel nulla.

Mamma perse il sonno e la fame, finché dopo tre mesi d’agonia, visto che il tempo del suo matrimonio s’avvicinava e non avendo il coraggio d’affrontare suo padre e Saro il farmacista, un pomeriggio fece un colpo di testa: prese la corriera e andò a Siracusa a cercare il suo amato.

Lo trovò, la famiglia di Flavio era molto conosciuta e le indicarono subito la sua casa patrizia.

Parte III° Festa di mezza estate

Considerando il periodo in cui avvennero i fatti (inizio anni ’50) in cui l’Italia si stava riprendendo lentamente dalla guerra, ma era ancora con una mentalità bigotta e puritana pronta al giudizio e alla condanna; Rosellina dimostrò fegato e coraggio da vendere, sfidando le ire del padre e le malelingue del paese.

Flavio quando se la vide dinanzi; prima impallidì, poi arrossì di rabbia.

“E tu che ci fai qui?!”

La fanciulla si sentì ferita a morte, lo guardava interrogativamente … finché lui nel vedersela davanti così giovane, bella, innamorata e disperata si sgelò e se la strinse al cuore.

Dopo aver amoreggiato con lei senza però conoscerla biblicamente, Flavio portò Rosellina nel più bell’albergo della città, e l’indomani mattina la riaccompagnò a Kars.

Nonno era in condizioni pietose, era stato ad un pelo di un colpo apoplettico ed aveva già denunziato la scomparsa della figlia.

Nel vedersela davanti quasi si strozzò, mia madre buttandogli le braccia al collo gli disse:

“Papà lo amo, lui è mio marito.”

“Non l’ho sfiorata nemmeno con un dito, ma la amo anch’io.” Replicò lui.

Nonno Vincenzo era distrutto; informò il farmacista Saro Melilli che il fidanzamento con sua figlia era andato a monte e pretese subito dai ragazzi il matrimonio riparatore.

Così Rosellina e Flavio, dopo meno di un mese dalla ‘fuitina’ di lei, si sposarono alle 6 di mattina, senza fiori, senza canti, senza invitati, senza luci.

Questa era la punizione che la mentalità meschina dell’epoca riservava ai figli ribelli.

Ma mia madre era felice: quando entrarono in chiesa, così giovani e innamorati, le ombre si dileguarono e la loro bellezza illuminò le tetre navate della Madrice.

Nonno era troppo adirato e non organizzò nessuna banchetto di nozze per la figlia, ma la amava e le diede l’appartamento arredato e il suo prezioso corredo, quindi per smaltire la sua rabbia, armatosi d’amo ed esche andò a pescare trote e tenche al fiume Anapo che attraversava le sue tenute.

Ma non aveva fatto i conti con i notabili del paese: le loro mogli e i mezzadri con le loro donne che adoravano la piccola Rosellina e a sua insaputa organizzarono una magnifica festa banchetto in campagna nell’aia vicino la fattoria e le case coloniche.

Con una scusa nel pomeriggio prelevarono i due sposi e li portarono nella tenuta del nonno, e… oh meraviglia! Enormi tavolate con ogni ben di Dio, vini pregiati: Nero d’Avola, Duca di Salaparuta, Cerasuolo di Vittoria, Malvasia, Passito di Pantelleria, Lacrima Cristi, Marsala …, poi ancora Nocini, Karkadè, Elisir, Ratafià, Rosoli … dolci e dolcetti d’ogni tipo e piatti salati a volontà.

Le fanciulle e i giovanotti erano vestiti con i costumi tipici siciliani e all’arrivo degli sposi si aprirono le danze.

Si ballava di tutto, ma in prevalenza tarantella e mazurca .

Il vento portò al nonno profumi, riso e canti. Come un segugio seguì a fiuto gli odori e i suoni e si ritrovò nella sua aia vestita a festa, nel bel mezzo di una tarantella.

Si inibì: non sapeva più se ridere, piangere o dare in escandescenze … mentre ancora rifletteva un ragazzetto gli si avvicinò offrendogli un tamburello.

Sorrise e si unì alle danze.

Era una magica sera di Luglio e Rosellina ebbe il suo “Sogno di una notte de mezza estate”


Nota: I ricordi del matrimonio di mia madre hanno il supporto dei racconti che mi fecero Tessy e uno zio paterno.

La ninna nanna è un ricordo mio personale, mamma me la cantò fino la sera prima di morire.

lunedì 19 aprile 2010

Cosette Miserabili - Romanzo

Dedico queste mie pagine a tutti i piccoli orfani d’ogni era e d’ogni luogo, postati in freddi orfanotrofi: privati della dignità di ‘persona’, della fanciullezza, dei giochi, del sorriso, dell’amore!

A loro, crocifissini di ieri, d’oggi e di domani và il mio pensiero e tutto il mio bene

Cosette Miserabili

E dire ch’erano gioia
luna e stelle...
figlie di Re
bouquet d'aurora...!

"Decima d'aneto
per sacro presente:
ladra d'avi e di progenie
ludica funesta
ruba
vite baciate.
Parole laviche
da bocche di ghiacciai,
magma sferzante
arroganza farisaica
veste
figlie del nulla,
concrete false
astratte sagome di vento,
neri fiocchi
anni secondari...
Cosette miserabili
genie di nubi
ed ombre di terra
piovono
lacrime azzurre,
grande stupore fuso!
Ancestrali rimedi
su perduti nomi:
cifre non amate
sigilli di numero
in bracci di stoffa...
Cinquanta piedi scalzi
irrequieti
bocci alati
difficili al riposo,
danzano
musica sognata
vestine corte
risate al vento
su arsi camposanti.
Mute
genetiche nenie ataviche
di bambole obliate...!"

E dire ch'erano gioia,
luna e stelle...
figlie di Re
bouquet d'aurora...!

Aliquem tutorem instituere fliorum orbitati

Cusiddi Miserabili

E diri ch'erunu gioia
luna e stiddi...
figghi di Re
sciuri d'aurora...!

Decima ufferta di benifatturi
ppi sacru prisenti:
latra di matri e figghi
joculana fatali
ruba
viti vasati.
Paroli di focu
di vucca di ghiacciai,
lava smaccusa
arruganza farisaica
vesti
figghi di lu nenti
cuncreti fàusi
fantasiusi sàgumi di ventu,
niri giummi
anni sicundari...
Cusiddi miserabili
genii di nuvuli
e ùmmiri di terra
chiovunu
lacrimi cilesti,
granni stupuri fusu!
Antichi rimedi
sùpira a nomi pirduti:
cifri nun amati
sigilli di nùmmiru
nni vrazza di pezza...
Cinquanta pedi scàusi
scueti
bocci alati
difficili a lu riposu
danzanu
sugnata musica
nichi vesti
risati a lu ventu
sùpira a nfucati campusanti.
Muti
genètichi antichi cantilene
di pupiddi dimenticati...!

E diri ch'erunu gioia,
luna e stiddi...
figghi di Re
sciuri d'aurora...!

Aliquem tutorem instituere fliorum orbitati. (Traduzione in lingua siciliana di Patti Alessio)


Cap. I°

Il mio nome è Pietra Luce

Sono nata a Kars, paesello sui monti Iblei proseguo degli Irei , dove abitavano i miei genitori, e che dista circa 48 km. circa dal capoluogo Siracusa: antica città greca-romana, gioiello d’arte e d’antichi siti archeologici e architettonici; ben servita di medici, ospedali, cattedrali, seminari, banche, brefotrofi, patrie galere, palazzi di giustizia, forze armate ecc.,: tutta l’Italia in una cittadella.

Il mio paesùcolo faceva parte di una triade di piccoli borghi distanti l’uno dall’altro una decina di km. circa. Uno aveva origine greche e infatti vanta il suo bel teatro un po’ più piccolo di quello della superba Siracusa, ma altrettanto bello. Il secondo era arabo e il terzo normanno.

Il paesino di antichi vestigi arabe, Kars, (dall’arabo ‘castello’), per l’appunto il mio, era sito a 700 mt. sul livello del mare, circondato da boschi fitti e lussureggianti.

Non fu mai bombardato in nessuna guerra: era invisibile! niente grattacieli o monumenti con pinnacoli, solo piccole casette bianche e rosa basse e con l’orticello sul retro. Non c’era in nessuna cartina geografica ed erano a conoscenza della sua esistenza solo i discendenti dei nativi sparsi nel mondo, la Curia e la Provincia. Sono certa che nemmeno oggi il sofisticato Google Earth riuscirà mai a scoprirlo! Infatti nei secoli in ogni guerra fu rifugio inviolato dei disertori.

La sua aria era fine e con un microclima mediterraneo delizioso: l’estate era calda ma non opprimente, d’inverno cadeva la neve e giovani e vecchi si divertivano giocando mentre il caldarrostaio intiepidiva l’aria e offriva a tutti le prime scottanti castagne. Ci si conosceva tutti ed anche i passeri e le rondini riconoscevano gli uomini che non li cacciavano e davano loro le briciole e, non tradivano mai! ogni passeraceo tornava sempre alla stessa casa per il rancio e il nido.

La nonna paterna si chiamava Pierangela era di umili origini, ma bella e intelligente aveva sposato l’uomo più ricco del paese, un vecchio nobile decaduto, Ottavio Filiadei, più anziano di lei di quarant’anni, con la fissa dei nomi romani: lei aveva 18 anni e lui 58.

Nonno Ottavio dopo il matrimonio con la sua bella Pierangela, si ringalluzzì, ebbe un ritorno di gioventù e fece figli e figlie, finché una notte dopo le sue gesta amorose ci restò secco e in tre minuti si ritrovò con i suoi avi.

Nonna Pierangela si ritrovò una ricca vedova di figli e di debiti, in quanto il suo marito aveva sperperato tutti i beni di famiglia in viaggi, feste, battute di caccia, donne…; le rimase la casa patrizia e la sua corona di progenie. Dopo nove mesi partorì il sesto bambino ultimo regalo del seme di Ottavio al suo ventre fertile come buona terra: mio padre non conobbe mai il suo.

Quando io nacqui era tradizione battezzare i figli col nome dei nonni paterni, per continuare la dinastia. A mia madre non piaceva proprio quel nome, ovverossia ‘Pierangela’ e ripeteva a mio padre, il più bell’uomo dell’isola, che se il figlio che portava in grembo fosse stata femmina, mai e poi mai l’ avrebbe chiamata Piera perché era convinta che con quel nome sua figlia sarebbe stata una ‘pierina’ zimbello dei compagni e della vita.

Pierangela aveva rispettato gli usi della famiglia di Ottavio, chiamando il figlio con un altisonante nome romano: Flavio Giulio, ma tutti lo chiamavano solo ‘Flavio’; a mia madre per il figlio maschio i nomi andavano benissimo, anzi ad onor del vero, le piacevano molto, ma per la femmina no.

Mio padre ligio alla tradizione e al dovere non si smuoveva di una virgola e mamma Rosellina bella e testarda restava inchiodata alla sua decisione; così fu interpellata la saggezza nelle vesti della vecchia nonna e mise d’accordo la nuova generazione: ecco, il nome Piera si potrà sostituire con Pietra, e invece di Angela andrà bene Luce, visto che gli angeli sono esseri di luce, così se sarà femmina si chiamerà come la nonna Pierangela, ma con il nome modificato in Pietra Luce.

Mi raccontò in seguito mio padre che in quel minuto gli occhi di mamma si illuminarono come fari nella notte: era felice e il nuovo nome le piacque molto. Inutile dire che erano tutti convinti, o almeno lo speravano fortemente che mamma avrebbe partorito un maschio: non era mai successo nella famiglia Filiadei che un primogenito fosse femmina…! Nemmeno questa ragazzina avrebbe deluso: la sua pancia era alta e lei portava in giro la sua gravidanza felice, dritta, fiera.

Non fu così. Nacqui io e fui la delusione di mio padre e di tutto il parentado, compreso il nonno materno; mamma fu assistita dal parto dalla vecchia ostetrica di famiglia Donna Liberata, senza una gamba e con le cataratte ad ambedue gli occhi. Era una fredda sera di Dicembre e l’ostetrica con la sua carrozzina d’invalida stava assistendo in chiesa al rito vespertino del sabato sera. Chissà poiché io decisi di nascere prima, forse per l’ansia di vedere la luce che dalla culla ovattata del grembo di mia madre, avevo sentito tanto decantare.

Rosellina Melalogo in Filiadei - era al suo settimo mese di gravidanza; l’anziana levatrice stava immersa nel divino e i suoi pensieri vagabondi visitavano il paiolo di ceci che borbottava sulla brace: ‘ancora due ore posso stare tranquilla’

Non si aspettava l’urgente chiamata della vicina in ambasce: ‘vieni subito, sta per nascere il figlio di Rosellina”, si mise in confusione e strizzò l’occhio al chierichetto perché le spingesse la carrozzina. Il chierichetto si precipitò vestito ancora coi suoi piccoli abiti para-talari e con il campanello in mano; i suoi piedi erano veloci come quelli di un biblico cervo e il campanello squillava argentino ad ogni passo. Il vecchio Curato vedendo il suo monello ministrante che correva a gambe levate suonando la campanella spingendo l’invalida pensò ad un futuro morituro e corse arrancando e sbuffando dietro ai due.

La giovane madre vedendoli arrivare capì subito che l’anziano canonico l’aveva scambiata per una bella moribonda e con il suo ultimo urlo di doglia scuotendo il capo, voleva chiarire l’equivoco, ma dalle sue labbra non uscì alcun suono, ella voleva dire: “alla mia porta bussa la vita e non la morte”, il prete sfinito udì le parole non pronunziate e la consolò: “Rosellina, sono venuto a benedire te e il tuo piccolo che sta per nascere, anzi visto che è prematuro lo battezziamo subito perché il battesimo salva e guarisce, quando ti riprenderai concorderemo per il Battesimo ufficiale in Chiesa.

Aveva bisogno di un medico la piccola partoriente, ma il medico condotto dei tre piccoli paesini era sempre introvabile: amava molto la caccia e passava intere giornate e settimane fuori coi suoi cani e i suoi fucili; lasciava detto alla servetta che non lo dovevano disturbare per nessuna ragione al mondo, nemmeno se fosse morta sua moglie; infatti sua moglie in seguito fu colpita da ictus e morì dopo un giorno d’agonia, lui era a caccia rientrò dopo tre giorni e c’erano i funerali in corso: si strappò i bottoni della camicia e volle tirarsi i capelli che non aveva scorticandosi a sangue la luna e promise solennemente alla sua sposa Donna Eleonora estatica nella bella bara, e alla folla dei quattro gatti del paesello, che non sarebbe mai più andato a caccia, appese i fucili al chiodo e relegò i cani in giardino perché cacciassero i topi.

Mantenne la sua promessa per circa una settimana, il tempo del lutto canonico, e poi il grido dei cacciatori lo risvegliò, riprese in mano i suoi moschetti , liberò i cani e partì fra i boschi in cerca di lepri piccoline, smemorando così la sua promessa alla sant’anima di sua moglie.

Ovviamente quando lo cercarono per mia madre come al solito lui era a caccia e nessuno se ne meravigliò: scontato, tutto scontato! impensabile trasportare la giovane partoriente in ospedale (e come?! L’autobus per la città partiva la mattina e rientrava la sera e le macchine dei nativi ci stavano sulle dita rimaste di una mano mutilata ed erano introvabili: chi a caccia, chi al frantoio chi fra le coperte con il febbrone)

E così urlando Rosellina partorì: il suo bacino era stretto, l’anziana levatrice semicieca e invalida fece del suo meglio con il forcipe, ma non poté impedire che madre e figlia ebbero delle lacerazioni profonde, solo per volere divino io e mia madre restammo vive: mamma ebbe emorragie e complicazioni varie, ma Dio e la sua giovinezza l’aiutarono: aveva circa ventiquattro anni, ma ne dimostrava sedici per la sua piccola statura e i lineamenti di fanciulla pura.

Io ero così piccola che sembravo una pupattola di pezza strattonata: ero nata settimina, faceva freddo in quella serata del 13 Dicembre e stavo per morire assiderata.

Subito alla nascita fui la grande delusione di mio padre: malgrado le loro chiacchiere sui nomi, egli era certissimo che io fossi maschio e sentendo che gli era nata una femmina se ne andò sbattendo la porta; così restarono le curiose e provvide vicine con l’invalida levatrice. Sotto la sua direzione prepararono una cullina tutta imbottita d’ovatta e sotto la culla sistemarono un bel braciere: quella fu la mia incubatrice!

Il buon canonico si commosse, stringeva nervoso il suo fazzolettone ricavato da un vecchio lenzuolo tagliato a pezzi e si asciugava lacrime e sudore finché i suoi liquami non poterono essere più assorbiti dalla stoffa e scivolavano direttamente sul pavimento; quando ci fu un po’ di calma mi battezzò con l’acqua della fontana:

“Pietra Luce io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” ,

poi ci benedisse. Mai nome dato ad un figlio fu più appropriato del mio; infatti casualmente (si aspettava la mia nascita per metà febbraio) il giorno della mia nascita era il 13 Dicembre, Santa Lucia, il cui nome significa “Luce” e mia madre guardando con tenerezza la cuna nella quale ero adagiata ripeteva: ‘la mia piccola Luce, la mia piccola Luce…” e per lei anche se mi chiamavo Pietra Luce fui sempre e solo Luce!

martedì 23 marzo 2010

Maestro del Nulla


Sfogliate pagine

d’onde

su nere rocce,

schiaffeggiate

da feroci urla

di vento Maestro,

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Smarriti

fogli d’acqua

in infiniti fondali

d’orante

alma mater.

Vento… oh vento

d’infima statio!

infedele amico

d’offesa storia,

spazzino d’armonie

e folli incanti

declamati

da passiti giullari

in gelidi canti.

Scalda nel deserto

le tue ali

e, torna a baciare!