Cap. VI
Mi si apre l’intelletto
L’indomani
della visita del dottore dopo il rito delle abluzioni mattutine e l’infinita
meditazione terroristica sull’inutilità della vita e sulla morte forse
imminente, all’uscita dalla Cappella una monaca in malo modo mi prese per un
braccio: “ehi, tu vieni con me” e mi trascinò in cucina.
Le
altre piccole infelici, ma felici nella loro incoscienza, capirono subito che
era arrivato il mio turno per il purgante che periodicamente davano alle
orfane.
“l’olio
di ricino, l’olio di ricino, olio di ricino …, “
e
tutte in coro a strillare, saltare e ridere. Io come una sciocca non capivo
niente, avevo paura, ma non volevo farlo vedere.
“vado
a prendere una molletta”
“no,
le stringo io il naso”
“ci
vuole la molletta, la molletta”
“stringetele
il naso, il naso “
e
come calabroni impazziti mi gironzolavano attorno, danzando con le mani al
cielo, stringendo fra le dita mollette di legno per il bucato, di tutte le
dimensioni.
Decisi
di restare fredda e ferma, piccola Pietra dura nell’attesa degli eventi. Pur
essendo una miniatura di donna, capivo che era perfettamente inutile
ribellarsi: io ero mezza spanna e loro gigantesse alte, forti e gelide come
iceberg.
Una
monaca dal viso intagliato nel ghiaccio e gli occhi gelidi mi porse un
bicchiere colmo di qualcosa di viscido.
“Prendi
e bevi, se non lo fai da sola sarò costretta a metterti una molletta sul naso
così dovrai per forza aprire la bocca per respirare, e allora te lo faccio
ingoiare a forza.
Se
ti ribelli ti teniamo in due ferma e oltre la molletta useremo l’imbuto.”
Non
avevo capito un accidenti del lungo discorso, tranne le parole “prendi e bevi”
Le
altre ricoverate invece avevano capito benissimo e fremevano dal desiderio di
vedere lo spettacolo di una bimba che urlava scalciando e delle monache che la tenevano ferma con la
molletta sul naso per impedirle di respirare.
Non
volli dar sazio ne’ alle monache ne’ alle gazze impazzite e urlanti che non
aspettavano altro che di divertirsi alle mie spalle, presi il bicchiere e come
una piccola Socrate bevvi la mia cicuta cioè l’olio di ricino senza fiatare.
Mi
venne da vomitare e vidi la delusione negli occhi di tutte. Ad una ad una
sciamarono, restai io sola con dei terribili crampi allo stomaco; corsi in
bagno e non mi potei più alzare.
Non
so’, suppongo abbiano sbagliato dose per
eccesso, fatto sta che ebbi delle scariche fortissime di diarrea che pareva non
volesse finire mai.
Restai
seduta sul water torcendomi dal dolore e sudando fredda.
Non
so per quante ore restai lì, credo d’essere svenuta, finché senti una voce
amica: era il Dottor Costante chiamato d’urgenza dalle monache impaurite dal
mio stato: forse pensarono che stessi per morire.
Il
dottore che fortunatamente quel giorno non era a caccia, mi consolò e mi diede
un farmaco miracoloso che mi fece sentire subito meglio; poi proibì
categoricamente alle monache di dare alle bimbe e specificatamente a me, l’olio
di ricino come purgante o lassativo.
Lasciò
inoltre una busta con diversi farmaci ricostituenti a base di ferro, vitamine e
altro.
Per
i miei problemi di stitichezza mi prescrisse un cucchiaino d’olio di mandorle
dolci da prendere la sere prima d’andare a letto.
In
quel periodo la Mutua passava quasi tutti i farmaci, ma non a me perché mio
padre aveva cambiato paese e residenza e mi avevano cancellata dal suo stato di
famiglia.
Io
risultavo solo residente a Kars, ma non ero a carico di nessuno.
Iniziai
la cura ricostituente: sciroppi dolci e amari, buonissime pillole multi colorate
di vitamine, piccole boccette alle quali premendo il tappo scendeva una
polverina e che poi dopo averle agitate
si bevevano, erano buone: sapevano di fragole.
Dopo
qualche giorno cominciai a star meglio, ma ancora cadevo ogni due tre passi,
ero magrissima e non avevo la forza ne’ fisica ne’ psicologica di reggermi in
piedi.
Nel
giorno del trigesimo della morte di mamma venne a trovarmi la sua amica del
cuore, Tessy.
Quando
mi vide quasi non mi riconobbe, si mise a piangere e prendendomi in braccio recitò
sotto voce questa poesia.
“Esso nacque, sua madre morì.
La morte per il suo cammino
com'è distratta a volte
dimenticò di prendere il bambino.
Un anno dopo il padre
riprese moglie, e il bimbo
aveva torto d'esserci…” da “Pierino” (Il nonno e il nipotino) di G.Pascoli
Ascoltai
attentamente e le dissi “ancora”, e poi di nuovo “ancora”, non so quante volte
Tessy mi ripeté piangendo la poesia di Pascoli; poi pretesi che me la spiegasse
e man mano che lei parlava una grande luce illuminava la mia mente.
Mi
si aprì l’intelletto quasi istantaneamente, come se avessi ricevuta una gran
botta in testa e ricordi e visioni emersero con prepotenza.
Come
in un film rividi e rivissi il giorno della morte di mamma, ora mi era tutto
chiaro: mamma non sarebbe tornata mai più, non si sarebbe svegliata, non
poteva, era inutile aspettarla …!
Scoppiai
in un pianto disperato, infinito, inconsolabile .
Contemporaneamente
capii la differenza tra la vita e la morte, io ero ancora viva, mi pizzicavo ed
ero certa d’essere VIVA, ed ero contenta di non essere morta con la mamma, poi
inorridivo del mio pensiero, e volevo essere anch’io morta, e mi tormentavo
perché realmente non volevo morire, e mi sentivo cattiva, cattivissima … una
bimba senza cuore che non vuole stare accanto a sua madre!
E
singhiozzavo forte, un singhiozzo lungo, lamentoso.
Tessy
piangeva con me, alla fine disse:
“andiamo
a trovare la mamma”
Con
il consenso della Superiora Tessy mi prese in braccio, visto che non avevo la
forza fisica di camminare, e uscimmo.
Guardai
il paese e le strade con gli occhi appannati dalle lacrime, ancora avevo dei
singulti di pianto. Mi parve tutto diverso: piccolo, polveroso, con vecchi
annoiati e soli, con lo sguardo vuoto e sperduto intenti a guardare ricordi
lontani … stavano seduti davanti la porta; capii che attendevano la morte.
Non
incontrammo bambini: erano tutti a scuola.
Il
paese sonnecchiava.
Tutti
quelli che incontrammo si fermarono per una carezza e per spettegolare con la
buona Tessy.
Passammo
dal Corso Matteotti, il Gran Bazar era sempre lì, ma non mi diceva nulla; non
mi parve più così grande, ma piccolo e stupido.
Tessy
si fermò a comprare delle leccornie, li accettai dietro sue insistenze, ma non
ne toccai una, tenevo il sacchetto fermo in una mano assolutamente indifferente
al suo contenuto.
Facemmo
un’altra sosta dal fioraio, Tessy comprò un meraviglioso mazzo di rose bianche
e rosa; “queste li portiamo alla tua mamma”
Non
capivo: mamma era morta o no?! Se le regaliamo le rose, allora è viva …!
Un
lumicino di speranza si aprì nella mia anima.
Arrivammo
al Cimitero, non ero mai entrata in un posto simile.
Sgranai
gli occhi guardando attentamente ogni cosa: Cappelle, viali curati con tanti
fiori, angeli dolenti, puttini, madri lacrimose …
Credevo
che mamma si fosse trasferita in una di quelle cappelle che somigliavano tanto
a delle piccole casette; quale non fu la mia delusione nel vedere che Tessy
imboccò un viale dove non c’erano Cappelle o statue, ma semplici tumuli di
terra con una croce e il nome sopra.
Mamma,
la fanciulla più bella e ricca del paese, era stata seppellita nei loculi
riservato ai poveri …!
“Perché
… perché … perché …?” Chiedevo piangendo.
“Tuo
padre se n’è andato subito dopo il funerale, forse non avevate una tomba e in
quella di famiglia, cioè di tuo nonno, non si è potuta seppellire perché tua
zia Marella e zio Maso non hanno dato il permesso. Il Comune l’ha fatta mettere
qui, nei loculi riservato agli indigenti.”
Non
avevo capito bene tutto il discorso, ad eccezione che mamma era lì.
Scoppiai
di nuovo in un pianto inconsolabile.
Guardavo
la terra e tremavo. S’era d’ottobre e già faceva freddo. Mi angosciai pensando
che mamma sarebbe di nuovo morta, di freddo, lì sotto; dovevo assolutamente
portare una coperta per lei, non potevo lasciarla così … e continuavo a
lacrimare.
Coprimmo
il piccolo loculo di mamma di rose e verde, ora sembrava più bello.
Al
ritorno passammo di nuovo davanti a tutte le belle cappelle, mi colpì
particolarmente una, ricca di colonnine e ghirigori, era maestosa! Feci cenno a
Tessy perché anche lei la guardasse:
“la
mamma non deve stare sotto terra, la voglio mettere lì “
“Piccolina,
quella è la tomba dei Principi Lanza, ci vogliono un sacco di soldi per farne
una simile”
Era
il giorno delle lacrime, scoppiai di nuovo in pianto:
“ma
non può restare lì, non può, fa freddo e quando piove si bagna. La dobbiamo
togliere da lì.”
Dalla
morte della mamma, dopo il mio pianto inconsolabile mentre era ancora a casa
nella bara, non avevo versato una
lacrima, non volevo dar sazio alle bimbe dell’orfanotrofio e alle monache, ma
quel giorno ne versai così tante da prosciugarmi.
La
dolce amica di mamma cercava di consolarmi come meglio poteva con baci e
carezze, eravamo entrambe in un mare di lacrime, mi posò per terra per cercare
dei fazzoletti; in un attimo raccolsi tutte le mie forze e scappai svelta come
una leprotta.
Tornai
da mamma abbracciando le rose, le spine e la terra.
Dopo
qualche attimo Tessy si accorse della mia assenza, la poverina si disperò
cercandomi dappertutto, finché non si decise a tornare da mamma e lì mi trovò:
piccola figlia dell’aria, dei fiori del cielo, sola col suo dolore.
Più
in là seduto su una lapide il vecchio custode gobbo, piangeva.
Fece
cenno alla ragazza di lasciarmi sfogare.
Non
so quanto tempo restai lì, finché non mi sentii spossata senza più la forza di
versare una lacrima.
Tessy
mi prese dolcemente in braccio ed io promisi a mamma:
“Ti
comprerò una bella tomba, lavorerò e i primi soldi guadagnati saranno per te.”
“Piccolina,
ne hai da mangiare pane prima di realizzare il tuo sogno!”
“Perché,
perché …?”
“Prima
devi crescere, studiare, lavorare … campa cavallo, che l’erba cresce!” e fra se
aggiunse: “Se la trovi ancora qui.”
Chissà
perché generalmente gli adulti dicono forte i loro pensieri davanti ai bambini,
convinti che questi non capiscono nulla. Di certo questi adulti hanno
dimenticata la loro infanzia.
Io
non ho dimenticata la mia e posso garantire che i piccoli capiscono molto più
di quel che si crede.
Avevo
capito benissimo che dovevo crescere e studiare per poter lavorare. Invece non
mi era chiaro il senso di “se la trovi ancora qui”
Tormentai
Tessy per farmi spiegare cosa volesse dire.
“Per
ora non puoi capirlo, un giorno te lo dirò”
Decisi
di non insistere, avrei da sola fatto le mie indagini. Mamma, il dottor
Costante e Tessy mi avevano sempre trattata da ‘persona’ piccola sì, ma capace
di intendere e avevano sempre risposto alle mie domande con verità; invece per
mio padre, zia Marella ed altri grandi sapienti, come tutti i bambini ero solo
una mocciosetta fastidiosa.
Alla
prima occasione avrei chiesto al Dottore.
Di
ritorno all’Orfanotrofio, l’amica di mamma disse:
“passiamo
a salutare i tuoi zii”
Zio
Maso aveva ereditato dal nonno la passione per la caccia e la pesca, infatti
non lo trovammo.
Zia
Marella era davanti la sua porta che spettegolava con una vicina, le corsi
incontro; lei quando mi vide si precipitò in casa e mi chiuse la porta in
faccia.
Non
capivo ancora certe sfaccettature dell’animo umano adulto. Nella mia semplicità
credevo non m’avesse vista e cercai di bussare.
Tessy
mi tirò dolcemente indietro dicendo: “lasciamo perdere.”
Da
allora ogni volta che zia Marella mi vedeva, fin quando restò a Kars, o si
girava dall’altra parte o cambiava strada, o
chiudeva di scatto la porta .non appena mi avvicinavo,
Poi
conobbe un funzionario australiano, venuto dal suo Paese per scopi culturali,
si innamorarono, sposarono e zia partì per l’Australia.
Prima
di partire il Dottor Costante chiese alla Superiora: “mi dia la bimba, mi
sembra giusto che saluti la zia prima della sua partenza, sono certo che non la
rivedrà più”
Uscii
col caro medico, ma non rividi la zia nemmeno quella volta. Quando bussammo,
aprì nel riconoscere il dottore dall’occhialino, ma non appena mi vide si
ritrasse e ci chiuse la porta in faccia.
E
questo episodio che mi ferì molto, lo ricordo benissimo.
Non
ho mai capito perché zia Marella ce l’avesse tanto con me: che torto le avevo
fatto?!
Ero
troppo piccola per poter offendere a morte qualcuno …!
Questi
ricordi ancor oggi mi amareggiano.
Il
Dottor Costante vide la delusione nei miei occhi; mi portò a casa sua e Donna
Eleonora mi offrì cioccolata calda, zuccherini, biscotti e una vecchia
bomboniera che a me parve bellissima.
Il
ritorno all’orfanotrofio, che avrei voluto non arrivasse mai, lo feci sulle
braccia della moglie del medico, questi camminava accanto a noi e ogni tanto mi
accarezzava i capelli.
Mi
presi di coraggio e gli dissi: “Tessy dice che non trovo più mamma lì”
“lì,
dove?”
“Lì,
sotto la terra, io voglio studiare e lavorare, devo comprare una bella tomba
alla mamma, ma Tessy dice: ‘se la trovi’ … perché?”
Il
dottore da persona onesta e giusta, mi rispose con verità; con parole semplici
sì, ma con verità.
“Vuol
dire che se per dieci anni nessuno toglie i loro morti dalla terra, il Comune
li mette nell’ossario”
“che
cos’è?”
“
è una fossa comune, un posto dove mettono tutti i poveri morti che non hanno
una tomba”
“tutti
assieme?”
“si
tutti assieme”
“io
comprerò la tomba alla mamma. Giuro.”
Mi
guardò con pena, sua moglie aveva gli occhi rossi.
“Se
entro dieci anni non riesci a raccogliere i soldi, andiamo al Municipio e
chiederemo una proroga. Te lo prometto. Si può fare.”
Riuscii
ad onorare la promessa – giuramento fatto a mamma dopo dodici anni circa,
naturalmente chiedendo una proroga al Comune.
Non
spendevo un soldino per me e tutti quelli che recuperavo da qualche parente o
benefattore, lo conservavo custodendolo gelosamente; li contavo ma erano sempre
troppo pochi.
La
Superiora rideva sarcastica: “che vuoi farne? Non bastano nemmeno per le
caramelle!”
A
suo tempo racconterò come riuscii da sola a comprare una tomba decorosa a mamma